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Il Viaggio

UNA “TERRA DI PIETRE URLANTI”

GIOIA GENTILE - 24/07/2015

Il monastero di Khor Virap

Il monastero di Khor Virap

La guida, timidamente, ci chiede di rispettare il silenzio. Ma noi siamo già muti. Non potremmo percorrere in altro modo il breve tratto che conduce al sacrario. È un cammino di cento metri, diritto, fiancheggiato a sinistra da un muro su cui sono incisi i nomi delle comunità. Le comunità armene vittime del genocidio. In fondo, un’alta guglia spaccata in due e, accanto, dodici lastre di basalto, disposte a raggiera ed inclinate verso l’interno, a proteggere una fiamma perenne.

Scendiamo nell’adiacente Museo: la freddezza documentaristica del materiale esposto – lettere, dispacci ufficiali, fotografie – acuisce la drammaticità di quell’evento.

Mi si ripresentano alla mente le immagini evocate da Antonia Arslan ne La masseria delle allodole: la testa mozzata di Sempad lanciata in grembo alla moglie, la deportazione nel deserto siriano di donne, vecchi e bambini destinati alla morte… Ritornare all’aperto è una consolazione. Gli alberi, piantati dai capi di Stato stranieri che hanno riconosciuto il genocidio, fiammeggiano di rossi e di gialli in questa luminosa giornata di fine ottobre, quasi fossero consapevoli della loro funzione storica.

Siamo in Armenia già da un paio di giorni e abbiamo cominciato a conoscerla e a capirla. La nostalgia e la fierezza sono i suoi tratti caratteristici. Nostalgia per tutto ciò che ha perduto e fierezza per la sua storia antichissima e per ciò che la sua gente è riuscita a ricostruire.

Nostalgia anzitutto per il monte Ararat, alle cui pendici è nata la sua civiltà e che ora, in territorio turco, è solo una chimera verso cui lanciare colombe bianche. Ne danno alcune anche a noi, mentre saliamo al monastero di Khor Virap, perché possiamo farle volare verso la montagna sacra. Il monastero sorge sulla cima di una collina al centro di una vasta pianura e da lì domina l’orizzonte intero. L’Ararat è vicinissimo e si capisce perché sia difficile accettare di averlo perduto.

Il monastero di Khor Virap è solo uno dei tanti che si incontrano in questo Paese e di cui gli Armeni vanno giustamente fieri: monasteri distrutti nel corso delle guerre e riedificati pietra su pietra. Sono scavati nella roccia o si ergono ai bordi di un canyon, dominano il lago Sevan o si immergono in un campo, si fronteggiano e si parlano dall’alto di due monti contrapposti, si stagliano sul fianco di una montagna, confondendosi col colore delle sue pietre. E ovunque, nelle pietre, trovi le croci scolpite, le khatchkar. Sono lapidi funerarie o cippi commemorativi di eventi festosi, isolate o affiancate alle chiese o, ancora, raccolte in necropoli. Come il cimitero medioevale di Noraduz. Ci arriviamo alla fine di una giornata grigia; sulle centinaia di croci incombono nuvole basse. Poi, all’improvviso, uno squarcio lascia filtrare il rosso del tramonto e tutto il leggero declivio è inondato dai raggi del sole. Le croci si infuocano, offrendoci uno spettacolo esaltante e ci illudiamo che il cielo si sia aperto per noi.

E poi ci sono i libri, altro motivo di orgoglio. La Matenadaran, la biblioteca che custodisce gli antichi manoscritti, si erge come una cattedrale in cima al viale più imponente di Yerevan e raccoglie le opere che, sopravvissute a secoli di invasioni, saccheggi ed incendi, sono state restaurate e riportate alla originaria bellezza. Un’opera, in particolare, è commovente: un manoscritto del XV secolo delle Omelie di Mush. Fu salvato da due donne durante il genocidio del 1915, ma era talmente pesante che dovettero strapparlo a metà per poterlo trasportare. Una delle due donne emigrò poi in America portando con sé la metà del libro, che quindi fu possibile restaurare solo parecchi anni dopo.

Un amore appassionato per le sue “pietre” e per lo studio è la cifra di questo popolo e si comprende perché il poeta russo Osip Mandel’štam abbia definito l’Armenia una “terra di pietre urlanti”. Ma ciò che più colpisce è che, nonostante tutto, gli Armeni sanno ancora sorridere e sono capaci di autoironia: nel mercato di Yerevan mi soffermo a guardare una scultura che, a prima vista, sembra astratta; poi leggo la descrizione: “naso armeno”. Il venditore, ammiccando, si gira di profilo e mi mostra la somiglianza. E tutti e due scoppiamo in una risata.

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