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Società

I CAPELLI DELLA ZIA

VINCENZO CIARAFFA - 31/07/2015

ombrelloneQuella che sto per raccontare è una storia da ombrellone vera, tratta da un racconto che, per simpatia verso il frate domenicano Savonarola, l’ingenuo moralizzatore della Firenze medicea, avevo già pubblicato altrove con lo pseudonimo di Girolamo Frate.

 È una storia semplice risalente alla mia infanzia, una di quelle storie che accadevano sulle spiagge del sud negli anni Cinquanta, mentre il sole picchiava sulla testa di grandi e piccini. Eh, sì, quante cose all’epoca accadevano sotto l’ombrellone: amori che sbocciavano, amori che finivano con le vacanze, i primi sguardi di adolescenti maliziosi alle sboccianti forme di ragazzine che l’anno prima neppure guardavamo.

Ma l’ombrellone in quegli anni irripetibili era qualcosa di più di un ricovero dal sole, era una sorta di caravanserraglio in cui ci s’incontrava, si intrattenevano relazioni sociali e si rinsaldavano i legami di famiglie allargate oltre l’inverosimile, anche se all’epoca la locuzione “famiglia allargata” aveva un significato diverso rispetto a oggi. Infatti, negli anni Cinquanta intere famiglie di amici e parenti si univano in folte e variopinte comitive per andare al mare tutti insieme, “colonizzando” al loro arrivo interi tratti di spiaggia libera. Che cosa poi succedesse dopo, quando venivano rizzati gli ombrelloni e tirati fuori l’olio abbronzante, l’olio di oliva e alimenti tipo melone, cotolette e frittata di maccheroni lo narrò meglio di quanto potrei fare io oggi Aldo Fabrizi nel film “La famiglia Passaguai”.

Ebbene, nonostante la presenza di comitive numerose e vocianti com’era sempre anche quella nostra, v’era una periodo della giornata in cui la brezza marina prendeva ad accompagnarsi al moto delle onde e il rumore della risacca col suo ritmico, pacato “andare e venire” sulla battigia diventava un’irresistibile ninna-nanna. Era in quel momento che la spiaggia diventava stranamente silenziosa e le persone sotto gli ombrelloni incominciavano a parlare a bassa voce, quasi sussurrandosi le parole all’orecchio. Quel periodo andava, grosso modo, dall’una alle sedici del pomeriggio e coincideva anche con la pennichella di mariti e bambini. Giustamente, dopo aver ingurgitato batterie di angurie e quintali di cotolette e frittate di maccheroni, il modo più savio per affrontare una laboriosa digestione era uno solo: non muoversi!

Durante la siesta post-prandiale a rimanere sveglie e vigili erano, di solito, le donne, come dire mamme, nonne e zie che tentavano di far addormentare noi bambini sull’asciugamano steso all’ombra, mentre esse davano inizio a conciliabili a bassa voce improntati quasi sempre ad argomenti che andavano dai cattivi rapporti con suocere e cognate, al morbillo fatto dai bambini di casa. E se proprio volevano toccare un argomento osé, iniziavano a parlare delle misteriose uscite notturne dal convento del padre guardiano… Un fatto che, secondo loro, in paese sapevano tutti, come dire: «Mica siamo pettegole noi…».

Per quanto l’organizzazione logistica della nostra congrega in costume fosse abbastanza soddisfacente per i tempi, aveva comunque un punto debole ed era la mancanza del water. Per quella deficienza i bisogni corporali di adulti e bambini dovevano essere soddisfatti in un cubicolo del lido confinante con la spiaggia libera dove ci trovavamo, grazie a un misterioso accordo che i grandi facevano col suo gestore ogni domenica. Per carità, non era niente di che, ma soltanto una baracca di legno come la maggior parte delle cabine di quel lido, sebbene munita di tazza alla turca e di uno sciacquone così irruente e rumoroso che, se non facevi in tempo a spostarti dopo aver tirato la catenella, ti ritrovavi col bidè già fatto… .

Accadde che una domenica d’agosto, di primo pomeriggio, mentre l’elemento maschile adulto ronfava gagliardamente, una delle zie anzianotte e nubili del nostro gruppo, anzianotta ma con i capelli nerissimi, un tupè sempre ineccepibile e le labbra perennemente passate col rossetto, doveva recarsi al bagno e scelse me e il mio cuginetto, Francesco, per farsi accompagnare. Fu un’incombenza che, in verità, accettammo di buon grado perché eravamo stufi di fingere di dormire e chissà che non ci scappava anche una granita dal carrettino del gelataio posto sotto un tettuccio di canne.

La zia entrò nel “bagno” e si chiuse la porta alle spalle mentre noi due rimanemmo ad attenderla. Bisogna sapere che l’assito del bagno era costituito da tavole inchiodate una sull’altra e tra di loro v’erano degli interstizi in cui, ovviamente, nessuno dotato di buonsenso si sarebbe sognato di andare a sbirciare. Nessuno eccetto due bambini annoiati in un caldo pomeriggio d’agosto, su di una spiaggia assonnata, mentre il sole picchiava in testa. E dire che dopo ci scappò davvero la granita!

Dovettero passare alcuni anni prima che riuscissi a realizzare perché Francesco, che come me nulla sapeva di parrucchiere e capelli tinti, avesse preso un ceffone dalla mamma quando le chiese perché l’anziana zia che avevamo accompagnata al bagno avesse i capelli neri in testa e bianchi, invece, sotto la pancia. E quelli bianchi non erano neppure capelli.

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