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Cultura

IL GRANDE PASCOLI

MANIGLIO BOTTI - 11/09/2015

pascoliUn grande poeta, forse il più grande degli italiani tra Otto e Novecento, se non di tutti i tempi, oppure un versificatore, magari bravo, ma degno tutt’al più di comparire nei sussidiari di ragazzi di scuole di campagna?

L’interrogativo assillava Carlo Salinari, docente a Milano, più o meno mezzo secolo fa, nell’introdurre un corso sulla letteratura italiana degli anni che precedettero il fascismo, parlando di Giovanni Pascoli. In realtà Salinari, critico di scuola marxista, non faceva altro che riprendere i dubbi e il giudizio, un po’ controverso, che qualche decennio prima aveva espresso Benedetto Croce, secondo il quale le poesie di Pascoli, alcune delle quali apprezzabili, stavano sempre a mezzo “tra il capolavoro e il pasticcio”; un giudizio che aveva lasciato nello stesso Pascoli non poca amarezza.

Questo ancora c’è venuto a mente, dopo una nuova e lunga permanenza in Romagna con diverse riletture e puntate nel paese che diede i natali a Giovanni Pascoli, San Mauro, e che oggi viene segnalato sulle mappe proprio con il nome del poeta. Non solo: la Romagna (“Sempre un villaggio, sempre una campagna / mi ride al cuore (o piange), Severino: / il paese ove, andando, ci accompagna / l’azzurra vision di SanMarino: / sempre mi torna al cuore il mio paese / cui regnarono Guidi e Malatesta, / cui tenne pure il Passator cortese / re della strada, re della foresta…) ha scelto come autopromozione i versi del suo principale e conosciuto letterato e ogni anno il 10 di agosto, anniversario dell’assassinio mafioso del padre di Giovanni Pascoli, Ruggero, avvenuto nel 1867, quando il poeta aveva dodici anni, è oggi assunto come giorno di riferimento per celebrare, in tutt’Italia forse, la festa della poesia; una poesia all’apparenza semplice, se si vuole, ma sempre efficace, coinvolgente e struggente: “San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla. / Ritornava una rondine al tetto: / l’uccisero: cadde tra spini: / ella aveva nel becco un insetto: / la cena de’ suoi rondinini…”.

Per quanto ci riguarda gli interrogativi su Giovanni Pascoli a favore di una sua riconsiderazione sono del tutto risolti. È un grande. E non soltanto per questi versi che rappresentano – hanno rappresentato – una parte importante della nostra infanzia e dell’infanzia in assoluto, e nel caso del poeta, tanto tormentata. Giovanni Pascoli è stato un poeta importante. Ma anche – e così pochi come lui – Pascoli è stato un poeta del ricordo, della vita e della morte. Un poeta universale il cui racconto lirico non s’è mai potuto distaccare, né mai l’autore ha voluto che così fosse, dalla propria esperienza personale. Il segnale già compare nella stessa celebratissima “Romagna”: “Ma da quel nido, rondini tardive, / tutti migrammo un giorno nero; / io, la mia patria or è dove si vive; / gli altri son poco lungi; in cimitero…”.

E, di nuovo, la riflessione è sempre continuata nelle tante poesie che Giovanni Pascoli ci ha lasciato: dalle più semplici, già in parte citate, alle più… ermetiche. Su tutte, con buona pace di Benedetto Croce, “Nebbia”, ripresa dai “Canti di Castelvecchio”: “Nascondi le cose lontane, / tu nebbia impalpabile e scialba, / tu fumo che ancora rampolli, / su l’alba, / da’ lampi notturni e da’ crolli / d’aeree frane! / Nascondi le cose lontane, / nascondimi quello ch’è morto! / Ch’io veda soltanto la siepe / dell’orto, / la mura c’ha piene le crepe / di valeriane…”. Le speranze di fuga e di “dolce naufragio” leopardiane, in questo caso, si capovolgono nell’esame di un’inequivocabile realtà.

E poi, Giovanni Pascoli è grande perché è stato ed è un precursore – più di D’Annunzio, forse, che pure ne aveva colto la maestria e lo spirito – anche nella ricerca delle parole e nelle esondazioni e novità grammaticali. La sua “poesia per ragazzi” trae linfa invece, oltre che dal ricordo, da una vita di adulti temprati dalla storia e dalle difficoltà, dalle ambiguità dei rapporti famigliari (la sua indagatissima vicenda con le sorelle Ida e Maria), dalle incertezze sul lavoro (Pascoli fu perplesso e confuso anche nell’accettare la cattedra di letteratura italiana a Bologna, dopo la scomparsa del Carducci), dalla sua fine terrena, nel 1912, quando non aveva ancora sessant’anni, per cirrosi epatica, dicono, dovuta al bere.

Giovanni Pascoli è stato un poeta “semplice” e anche, soprattutto, un uomo complesso. Quando il poeta morì, il 6 aprile del 1912, Gabriele D’Annunzio, che come s’è detto se ne intendeva, mandò da Arcachon, dove si trovava, il seguente messaggio: “Giovanni Pascoli è il più grande e originale poeta apparso in Italia dopo il Petrarca. Questo sarà riconosciuto quando l’Italia rinnoverà anche le vecchie tavole dei valori poetici”.

Ci piace ricordarlo infine con i versi di una delle sue poesie “scolastiche” più famose, lo scalzo “Valentino”, anch’essa ripresa dai “Canti di Castelvecchio”: “…E venne / marzo, e tu, magro contadinello, / restasti a mezzo, così con le penne, / ma nudi i piedi, come un uccello: / come l’uccello venuto dal mare, / che tra il ciliegio salta, e non sa / ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare, / ci sia qualch’altra felicità.”

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