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Opinioni

MIGRANTI, UN CASO DI MIOPIA

VINCENZO CIARAFFA - 09/10/2015

Migranti albanesi a Bari nel 1991

Migranti albanesi a Bari nel 1991

Il pane, nelle sue diverse forme, è stato fin dalla notte dei tempi l’elemento fondamentale dell’alimentazione umana. Il nostro Paese produce, complessivamente, intorno al 50% del grano che consuma e questo significa che la metà del pane che mangiamo si confeziona con grano proveniente dall’estero, come dire dal Canada, dagli Usa, dall’Australia e da alcuni Paesi dell’Africa. Cerchiamo di tenere a mente questo dato più avanti.

Il 3 giugno del 1979, papa Giovanni Paolo II si recò in Polonia dove, nella città di Gniezno, fece un discorso che può considerarsi il grimaldello che avrebbe buttato giù la “cortina di ferro” e, successivamente, il muro di Berlino: «La cultura è soprattutto un bene comune […] Essa ci distingue come Nazione. Essa decide di noi lungo tutto il corso della storia, decide più ancora della forza materiale. Anzi, più ancora che le frontiere politiche». Più avanti cercheremo di tenere in mente anche questo pensiero del Beato Giovanni Paolo II.

Nessun uomo di Stato, nessuno dei tanti analisti politici che allora andavano per la maggiore, neppure lo stesso Papa in verità, quel mese di giugno del 1979 riuscì a prevedere che, nel giro di un decennio, l’impero sovietico sarebbe imploso e che si sarebbero creati nuovi ma aleatori equilibri mondiali, aleatori perché privi di quei centri decisionali che fino ad allora erano stati Mosca e Washington. In quel particolare momento storico, noi italiani eravamo troppo impegnati a satollarci nel trogolo della catastrofica politica economica dei governi di quegli anni per poter capire che, una volta dissoltisi i vecchi equilibri geopolitici, saremmo stati fatalmente interessati dagli “straripamenti” di popoli senza più remore ideologiche e/o confinarie.

Prevedibili ma imprevedute, il 7 marzo del 1991 nel porto di Brindisi arrivarono le prime carrette del mare dalle coste albanesi con 27.000 profughi a bordo, come dire un terzo della popolazione brindisina. L’avvenimento (e chi scrive era sul posto) ci trovò ovviamente impreparati a gestirlo ma, invece d’interrogarci sul recondito significato e sulle conseguenze di quell’arrivo, preferimmo scaricarne la colpa sulle televisioni di Berlusconi. Sarebbero state le sue rutilanti emittenti, infatti, a trasmettere oltre Adriatico l’immagine di un’Italia terra del latte e del miele e non, invece, l’insipienza della nostra politica estera verso una nazione che, all’epoca, non chiedeva di meglio che diventare un nostro pacifico “protettorato” economico.

Insomma neppure un fatto così foriero di conseguenze indusse la classe politica italiana ed europea ad accantonare le liti da cortile e interrogarsi sul futuro, su di che cosa sarebbe successo da quel 7 marzo brindisino del 1991 in poi.

Noi europei, poi, accogliemmo con derisoria supponenza anche l’avvertimento che ci venne dall’allora presidente del Senegal, Abdou Diouf, a proposito dei flussi migratori che dall’Africa si sarebbero riversati sull’Europa. Riletto oggi, il messaggio di Abdou Diouf si rivela di una sconcertante (ignorata) antiveggenza: «Rischiate di essere invasi prestissimo da moltitudini di africani che spinti dalla miseria si rovesceranno a ondate sui paesi del Nord. E non vi servirà a nulla creare delle disposizioni di legge contro l’emigrazione, non riuscirete ad arrestare questa valanga come non è possibile arrestare il mare con le braccia. Il Mediterraneo non li potrà fermare. Sarà un fenomeno simile a quello delle orde barbariche che hanno invaso l’Europa durante il medioevo».

A maggior ragione su di un giornale cattolico bisogna avere l’onestà di dire che la posizione della Chiesa su questo delicato tema non appare oggi univoca perché mentre il papa vorrebbe trasformare ogni Parrocchia, ogni convento, ogni oratorio in un ricovero per immigrati, il presidente della Conferenza episcopale congolese, il vescovo di Tshumbe monsignor Nicolas Djomo, sulla fuga dei giovani africani verso l’Europa ha assunto, a nostro avviso, una posizione più realistica di quella del papa: «Guardatevi dagli inganni delle nuove forme di distruzione della cultura della vita, dei valori morali e spirituali. Utilizzate i vostri talenti, e le altre risorse a vostra disposizione per rinnovare e trasformare il nostro continente e per la promozione della giustizia, della pace e della riconciliazione durature in Africa. Voi siete il tesoro dell’Africa. La Chiesa conta su di voi, il vostro continente ha bisogno di voi».

Come dire che gli abnormi flussi migratori che stiamo acriticamente agevolando invece di governarli dove si originano, faranno impoverire ancora di più quei Paesi che, a parole e magari con buone intenzioni, vorremmo risollevare dalla miseria. Insomma, giusto per ritornare al grano, è velleitario l’intento di un Paese come l’Italia che produce soltanto la metà del grano occorrente per sfamare i suoi abitanti, che vuole accogliere e nutrire milioni di persone provenienti da zone che già sono, o potrebbero diventare, i granai del mondo come l’Africa, che secondo la Fao, ha il 17% delle aree coltivabili mondiali. Ma chi le coltiverà se stiamo contribuendo a farne delle spopolate lande? Insomma, siamo all’assurdo che per sfamare degli esseri umani li incoraggiamo ad abbandonare la primaria fonte del loro sostentamento, invece di inserirli in un serio, convinto programma di sviluppo: un “Piano Marshall” per l’Africa e per l’Asia che coinvolga l’Europa, la Cina e gli USA. Per intenderci.

Al momento rileviamo che gli ultimi governi, spesso anche la Chiesa, hanno dimenticato una delle principali affermazioni del discorso che il Beato Giovanni Paolo II fece a Gniezno quel lontano, eppure così vicino, giugno del 1979: La cultura è soprattutto un bene comune […] Essa ci distingue come Nazione. I governanti nostrani, infatti, guardano con scocciata sufficienza a quell’identità culturale bimillenaria che ci distingue come popolo e come una Nazione, preferendo indugiare nella “pulizia etnica” della nostra storia, senza neppure tentare una qualche sintesi con le sopraggiungenti culture, senza tracciare quel solco in cui le prossime generazioni potrebbero gettare il seme di una nuova civiltà italiana, anche se dovesse avere la pelle color cioccolata e gli occhi a mandorla.

Questo è ciò che hanno fatto gli Usa nel corso della loro storia e che noi citiamo spesso a sproposito quando vogliamo parlare d’integrazione multirazziale, perché gli americani pur non essendo un popolo omogeneo sono una nazione orgogliosa di esserlo.

Purtroppo i nostri cosiddetti governanti, che quasi mai riescono a vedere quel che succede perfino sotto il loro naso, non hanno tratto nessun utile apprendimento dal referendum indipendentista in Scozia, dove gli indipendentisti hanno perso, e da quello più recente avvenuto in Catalogna dove gli indipendentisti alla fine sono risultati essere soltanto il 48% dei catalani. Come dire che i popoli europei (se ne faccia una ragione anche Salvini…) sentono ancora molto forte la loro identità nazionale e culturale. E un’identità nazionale è come un corso d’acqua che può arricchirsi col contributo di altri ruscelli, che può perfino frammischiarsi con altri fiumi e uscirne alla fine rinvigorito, ma è follia cercare di farlo sparire: primo a poi il corso d’acqua riemergerà e trascinerà via tutto ciò che incontrerà sul suo cammino.

In genere un tale, devastante trascinamento prende due nomi: intolleranza e/o guerra.

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