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Editoriale

MISSIONE

EDOARDO ZIN - 16/10/2015

panighettiDomenica prossima in San Vittore alle 16 inizierà ufficialmente il suo cammino nella Comunità Pastorale “Sant’Antonio abate” don Luigi Panighetti, nuovo prevosto, nonché parroco di San Vittore, di Casbeno, di Bosto e della Brunella.

Ci piace pensare che mai il titolo di prevosto, che oggi è ritenuto solo onorifico e addirittura soppresso dal sinodo diocesano del 1972, assuma viceversa una sua valenza pastorale di non poca rilevanza. Il prevosto, infatti, era un tempo il parroco della chiesa pievana preposto (da cui il nome di “prevosto”) alla cura e all’aiuto di altre chiese vicine, nate, spesso, da una chiesa madre, staccatesi per diventare porzione di chiesa particolare in un dato territorio. Fu così che, dopo la visita pastorale di Carlo Borromeo (1574) la castellanza di Casbeno divenne parrocchia autonoma, l’anno successivo fu la volta di Bosto e, in anni molto più recenti, toccò la stessa sorte alla Brunella: tre figlie generate dalla chiesa madre di San Vittore.

Oggi, queste quattro parrocchie, pur conservando la loro autonomia giuridica e amministrativa, sono unite in comunità per vincere le sfide che provengono da una società secolarizzata, dalla trasformazione urbanistica che ha subito la città, dalla diminuzione, bisogna ammetterlo, delle vocazioni sacerdotali. Tutto ciò, però, non basterebbe a cogliere il significato autentico di “comunità”.

Dopo il Concilio, la chiesa non è più soltanto un’istituzione giuridica a capo della quale c’è una gerarchia verticistica clericale, ma è rappresentata dal popolo di tutti i battezzati, il “popolo di Dio”, che si ritrova nel giorno del Signore per cibarsi del pane divenuto corpo del Signore spezzato alla mensa comune da un presbitero che lo distribuisce per cementare i cristiani nel vincolo della carità, alimentata anche dalla Parola di Dio che illumina i loro passi nel cammino della storia.

Il nuovo prevosto-parroco dovrà percorrere un cammino inverso a quello dei suoi predecessori: mettersi in mezzo al gregge come pastore di quattro parrocchie, animarle, incoraggiarle, unirle nella diversità, rinnovando la chiesa-piramide gerarchica, nata e cresciuta nell’epoca della cristianità, per trasformarla in chiesa-comunione, opera di tutto il popolo di Dio.

La chiesa varesina è sempre stata guidata, come già è stato ben scritto su queste pagine, da prevosti guide carismatiche e grandi pastori, ciascuno dei quali ha saputo interpretare i segni del suo tempo.

Ci pare che in un momento in cui l’individualismo si è inabissato fino al punto di rendere sovrana la solitudine e in un tempo chiuso all’abbandono, la chiesa sia chiamata a vivere l’amicizia con tutti gli uomini, ad abbattere i campanili in cui molti si sono arroccati e che rendono i credenti schiavi di un passato che non può ritornare.

Da ciò scaturisce un invito alla purificazione di tutte le incrostazioni che si sono depositate nelle coscienze, una chiamata a sollevarsi dalla rassegnazione, a ritrovare il senso profondo della vita, a tralasciare il bieco egoismo e le divisioni che lacerano la vita ecclesiale. È necessario ritrovare la concordia, senza la quale il confronto tra movimenti ed associazioni diventa un combattimento senza vincitori da cui esce perdente la credibilità della fede.

I credenti sono chiamati a sviluppare una comunità povera di sovrastrutture e ricca di fraternità, in cui ci sia dialogo tra fedeli e pastori, in cui i pastori si mettano all’ascolto, non si sovraccarichino di attività che possono rendere il loro impegno ancora più gravoso, in perfetta condivisione proprio come si esprimeva Alberto Magno: “Mai senza l’altro, mai contro l’altro, mai al di sopra dell’altro, mai all’insaputa dell’altro, ma ciò che riguarda tutti deve essere discusso, approvato da tutti, cercando la verità nella dolcezza della compagnia”.

La chiesa varesina è chiamata ad essere “sinodale” anche con i non credenti, gli agnostici, soprattutto se “uomini pensanti” – come li definitiva il nostro indimenticato Cardinal Martini – e spargere il seme della speranza in mezzo agli uomini, essere solidale con tutti, senza conformarsi alla moda passeggera, ma senza affermare alcuna superiorità, preferendo l’opzione per gli ultimi, per le vittime della storia, i trafitti nel cuore, i bisognosi, i sofferenti.

Tramite la Caritas e le numerose associazioni di volontariato, la chiesa accoglie i poveri, si prodiga con generosità per alleviare le sofferenze degli ultimi. Non vorremmo però che dimenticasse le inquietudini di tante donne e di tanti uomini che hanno sete di un’altra forma di carità: quella d’incontrare un’altra anima in grado di aiutarli a cercare la verità e la bellezza che non possono venire soddisfatte dalle manifestazioni, dalle organizzazioni, dai convegni. Le anime che cercano il Trascendente nella gestione ordinaria del fatto religioso si assopiscono. Sono anime che si allontanano.

Hanno bisogno di una chiesa che non conservi se stessa, senza cogliere il nuovo, senza risvegliare quel fuoco che arde sotto le braci. Papa Francesco ha invitato la chiesa a non essere come “una babysitter che cura il bambino per farlo addormentare”.

Solo una chiesa profetica che parli con chiarezza denunciando i mali, la pavidità e la quiescenza, la doppiezza, l’ipocrisia, i silenzi potrà favorire un aperto confronto e il dialogo anche con la società civile, col mondo della cultura e del lavoro.

Parafrasando Paolo, formuliamo l’augurio che rivolgiamo a Mons. Panighetti: quello della speranza di poter affrontare tutti assieme le sfide del presente affondando le radici nel passato e guardando al futuro con fiducia e perseveranza.

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