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Attualità

TENERA È “LA NOTTE”

SERGIO REDAELLI - 30/10/2015

Nino Nutrizio

Nino Nutrizio

Vent’anni fa, nel 1995, chiudeva La Notte fondata da Nino Nutrizio, l’ultimo giornale milanese del pomeriggio. Non fu una sorpresa: “Crisi di vendite e alti costi”, sottotitolò il Corsera a pagina 14 nelle retrovie della cronaca nazionale. La tv pubblica e quelle private, con i notiziari sempre più frequenti trasmessi lungo l’arco della giornata, avevano dato il colpo di grazia alla stampa pomeridiana. Quarantadue giornalisti e trenta poligrafici finirono in cassa integrazione: “Decisione sofferta ma inevitabile”, fu il necrologio dettato dall’editore Paolo Berlusconi. Il fratello premier prometteva allora un milione di posti di lavoro e che cosa contavano settantadue in più o in meno?

Il fondatore Nino Nutrizio si era già ritirato da un pezzo. Aveva scritto il fondo di congedo il 15 gennaio 1979: “Per ventisei anni sono stato il giornalista più libero d’Italia, in grado di scrivere tutto ciò che pensavo e di cui ero convinto”. Da allora si erano alternati alla guida del giornale Livio Caputo, Pietro Giorgianni (vincitore del premio giornalistico Saint Vincent 1975 con il racconto dell’intervento chirurgico subito al cuore), Carlo Palumbo, Cesare Lanza, Giuseppe Botteri e Massimo Donelli in una girandola di passaggi di proprietà da Pesenti a Rusconi a Cusani a Paolo Berlusconi, appunto. Vent’anni fa, l’anno della chiusura.

Io fui assunto nell’estate del 1977. Dall’altra parte della scrivania Nutrizio mi squadrava con occhi azzurri e profondi. Il colloquio non durò più di un quarto d’ora e quando mi alzai per andarmene mi trattenne: “E si ricordi che nessun uomo politico è stato seduto su quella sedia più di quanto ci sia stato lei oggi”. Elegante, abbronzato, camicia e giacca chiara, capelli a spazzola e sguardo severo da sergente di ferro, lo chiamavano “il marine”. Di lui sapevo che era un rubacuori, che scriveva divinamente e che durante la seconda guerra mondiale era scampato all’affondamento dell’incrociatore Pola dov’era imbarcato come corrispondente di guerra.

Metteva soggezione. In quel breve colloquio spiegò che il giornale aveva sostenuto la coalizione centrista di De Gasperi nelle elezioni della primavera del 1953 e che negli anni aveva conquistato i lettori per lo spirito libero e indipendente; e al momento di congedarmi pronunciò la frase che non ho più dimenticato: il giornalista deve tenersi le mani libere dalla politica e stimolare chi ha il potere a operare esclusivamente nell’interesse pubblico. Fare comunella con amministratori pubblici, deputati e senatori non va d’accordo con la libertà di critica. A ognuno il proprio ruolo.

Negli ultimi anni abbiamo visto pontificare parecchi giornalisti legati al carro di questo o quel partito, chissà con quale autorevolezza e indipendenza di giudizio. Il mondo è cambiato, d’accordo, la lotta per il controllo dei media si è fatta spietata, il peso dell’informazione è cresciuto e può determinare il destino dei governi, la concorrenza ha esasperato la necessità di essere vicini alle fonti delle notizie, di arrivare prima e con più dettagli ma il ruolo del giornalista è sempre lo stesso, dalla parte del cittadino. Stare a debita distanza dalla politica, rispettare l’ambito della propria professione senza pericolosi sconfinamenti deontologici è una clausola di sicurezza per il lettore.

Nutrizio non rinunciava certo ad esprimere le proprie opinioni e diede prova del suo stile “popolare” nella trasmissione televisiva Tribuna politica nel 1976. Mostrò alle telecamere un pacco di pasta e uno di riso e si rivolse al segretario del PCI Enrico Berlinguer ospite in studio: “Caro onorevole, pasta e riso non possono bollire insieme nella medesima pentola. Lo stesso vale per la democrazia e il comunismo”. Più efficace di tante parole, tenuto conto che parliamo di quarant’anni fa e che le tribune elettorali erano interminabili polpettoni; ma un conto è esprimere le proprie idee, un altro ubbidire a un padrone, allora come oggi è la differenza che corre tra la libertà di pensiero e il servilismo.

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