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Opinioni

STRATEGIE DEL BIGNASCA

VINCENZO CIARAFFA - 28/01/2012

In un precedente contributo ci eravamo soffermati sull’incoerente strategia politica del presidente della Lega Ticinese, Giuliano Bignasca, perché da un lato si spende come nemico dei nostri frontalieri, mentre dall’altro vorrebbe riunirli in un mega-cantone italofono della vicina Confederazione Elvetica. Nessuna meraviglia, per carità! I facinorosi e gli intolleranti, infatti, il problema della coerenza neppure se lo pongono, abituati come sono a solleticare i peggiori istinti dei loro seguaci, quali che siano. La tecnica alla quale essi di solito ricorrono per raggiungere tale scopo (in questo fu insuperato maestro Mussolini) è piuttosto semplice: prendono un problema oggettivo – come quello dell’immigrazione per esempio – e, dopo averlo artatamente “ripulito” da quegli elementi d’ineluttabilità vichiana che sospinge ogni evento della storia, lo presentano ai loro seguaci come un’aggressione di tipo militare all’identità e al benessere nazionale.

Per capire di che cosa parliamo, è sufficiente andare a rileggersi cosa ha scritto Bignasca su “Il Mattino”, giornale domenicale della Lega dei Ticinesi, della quale vi proponiamo un florilegio: “Dobbiamo impedire alle agenzie di collocamento italiane di reperire manodopera per il mercato del lavoro ticinese”. In verità non si capisce bene come vorrebbe impedirlo, giacché l’Italia è (ancora) una nazione sovrana e, pertanto, le agenzie di collocamento che operano sul suo territorio ubbidiscono alle leggi nazionali e non a un qualsiasi Bignasca d’oltre confine. E, per quanto immaginifici, non riusciamo neppure a pensare che egli possa capitanare dei commandos della fonduta per sabotare le agenzie di collocamento sul nostro territorio. Comunque, nel suo intervento domenicale, il leader leghista ticinese non ha risparmiato ai frontalieri neppure epiteti come “morti di fame”.

Ebbene, se volessimo mantenerci sul suo stesso piano dialettico – e di stile – potremmo sostenere che egli è un “morto di sonno”, nel senso che soltanto la perdurante latitanza di Morfeo può avergli obnubilato la mente e impedito di andarsi a riguardare la storia del suo Paese: avrebbe avuto modo di apprendere che la lunga durata del sistema politico-amministrativo vigente in Svizzera ha preso l’avvio proprio dalle rimesse economiche di una particolare forma di “frontalierismo” dei suoi antichi abitatori. Infatti, fino al XVI secolo, torme di valligiani svizzeri emigrarono dalle loro povere terre per arruolarsi come mercenari nei vari eserciti europei, tant’è che reggimenti di tali mercenari militarono nell’esercito borbonico fino agli albori dell’Unità italiana. Quando, poi, i prezzolati soldati svizzeri si resero conto che i nascenti stati nazionali non avrebbero più avuto bisogno dei loro servigi, pensarono bene di arroccarsi nelle loro valli e costruirvi, con i soldi guadagnati all’estero con le armi, un tipo di aggregazione economica, politica e sociale unico in Europa. Essi si riciclarono come commercianti, artigiani, speculatori finanziari e questa trasmutazione favorì la nascita di una vivida borghesia imprenditoriale la quale intuì che, per portare avanti i propri commerci con successo, avrebbe avuto bisogno di manodopera numerosa, specializzata e a basso costo. Fu così che la Svizzera cominciò ad avere bisogno dei frontalieri provenienti dal Varesotto, dal Comasco, dal Lecchese e, in seguito, da altre regioni d’Italia e d’Europa.

Il conseguente sviluppo delle piccole imprese, una segretezza bancaria a prova di bomba, la sua scelta neutralista e la tranquillità sociale hanno fatto della Svizzera uno dei Paesi più stabili al mondo soprattutto dal punto di vista economico e finanziario. Fu per queste ragioni che presero ad affluire nelle sue banche depositi e investimenti da tutto il mondo tanto che, fino alla Seconda Guerra Mondiale, non vi fu dinastia industriale o casa regnante che non avesse messo al sicuro nei suoi forzieri parte delle proprie fortune. Vittorio Emanuele III e Pietro Badoglio, per esempio, qualche settimana prima che fosse firmato l’armistizio dell’otto settembre 1943, inviarono in Svizzera la bellezza di cinquanta vagoni ferroviari contenenti una parte dei loro beni. Questa centralità finanziaria, però, imponeva nuovi rapporti internazionali. Fu per questo motivo che, nel 1865, la Svizzera aderì all’Unione monetaria latina assieme a Francia, Belgio e Italia; fu il primo tentativo di disciplinare la libera circolazione delle valute europee all’interno degli Stati membri, secondo un concordato tasso di scambio: insospettabile “ecumenismo economico” per un Paese che non aderirà alla moneta unica europea e che si rivelerà isolazionista e, a tratti, xenofobo.

Mettiamo il caso che – giusto per ritornare da dove eravamo partiti – un nume più ubriaco del Bacco di Caravaggio realizzasse il desiderio del capo dei leghisti ticinesi d’impedire l’ingresso dei frontalieri nella vicina Confederazione, che cosa succederebbe? Probabilmente quello che succede su ogni mercato quando diminuisce l’offerta di un prodotto/servizio vitale: aumenterebbe la domanda di manodopera, quindi il costo dei salari e, fatalmente, quello della produzione e dell’effervescenza sindacale. Il risultato finale di un tale stato di cose non sarebbe tanto l’aumento delle barrette di cioccolato, dell’Emmental o degli orologi a cucù, quanto un’instabilità sociale che di certo non gioverebbe alla fama della Svizzera come tranquilla, discreta e savia amministratrice dei soldi altrui, in un momento storico in cui i soldi vanno alla ricerca di rifugi sicuri. E tutto questo sarebbe pernicioso per un Paese che, da due secoli, fonda il proprio sviluppo sulla manodopera e sui capitali provenienti dall’estero! Per questa ragione i sindacati svizzeri hanno preso subito le distanze dall’ennesima esternazione del leader dei leghisti ticinesi sui nostri frontalieri, “i morti di fame” secondo Bignasca.

Evidentemente i nostri vicini di casa si trovano anch’essi a fare i conti con quell’insana voglia di arroccamento territoriale – figlia di una malgovernata e malvissuta globalizzazione – che spesso degenera in xenofobia. Nulla di nuovo sotto il sole, osserverà qualcuno, perché neppure in Italia scherziamo in fatto d’intolleranza e d’intolleranti nei confronti dei lavoratori stranieri. In effetti, le cose da noi non stanno diffusamente così, anche perché l’italiano medio porta nel proprio Dna i segni di una secolare emigrazione alla ricerca di lavoro all’estero. E, poi, non dimentichiamo il proverbio (un po’ ritoccato in verità) secondo il quale Paese che vai, “bignascate” che trovi.

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