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Lettere

SENSO DELLA VARESINITÀ

- 07/12/2015

Se è vero quanto affermava Carlo Cattaneo che esiste una peculiare adesione del territorio all’identità della città che esso circonda – per cui il contadino della valle Camonica poteva dirsi bresciano anche senza aver mai visto la città – nel caso di Varese e di ciò che un tempo si sarebbe definito il suo contado le cose sono andate un po’ diversamente.  Tra i varesotti e i varesini c’è il confine immaginario che dovrebbe segnare chi sta dentro o fuori la città. La situazione però,  rispetto a quando Cattaneo scriveva La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, è alquanto cambiata e la distinzione che passa da una o o da una i sembra sempre meno sensata e incomprensibile ai più.  Varesini sono sia gli abitanti degli ex comuni, come Sant’Ambrogio o Bizzozzero,  dove esiste ancora qualcuno che sente la distanza fisica dal centro città come un retaggio identitario sopravvissuto ai quasi novant’anni di annessione, ma anche gli city user che ogni giorno, da un raggio che supera i dieci chilometri, hanno una qualche ragione per andare a Varese. Esiste quindi un senso condiviso della varesinità?

Daniele Zanzi è forse l’icona perfetta di un senso rinnovato e antico di varesinità : grande lavoratore,  come testimonia il successo della sua vicenda professionale, sincero localista che ama visceralmente la sua città, fortunata per essere così morbidamente appoggiata in quello spazio racchiuso dal lago (un tempo di Gavirate) e il massiccio del Campo dei Fiori, con una spiccata vocazione alla internazionalità che consente al suo italiano-lombardo di essere compensato da un inglese degno di figurare al cospetto di Her Majesty. Ha poi tutte quelle altre qualità delle popolazioni alpino-padane: pragmatismo, fare più che parlare,  orrore per la retorica.

Insomma la persona giusta per cambiare in senso radicale, ma da una prospettiva conservatrice, sia l’amministrazione della città sia la nozione di varesinità.

La conservazione – anche se chi scrive è tutto fuorché conservatrice – è probabilmente nel bene e nel male il punto chiave della svolta di cui la città ha bisogno. Nel bene perché conservare è l’opposto di distruggere, e nel male perché a volte i cambiamenti hanno bisogno della distruzione creativa. Daniele Zanzi con la sua idea di città in un giardino si esprime a favore della conservazione di una identità urbana, spesso coincidente con quella fasulla della città giardino, cresciuta in opposizione alla metropoli sempre più vicina. Tuttavia la sua visione sembra non lasciare spazio alla ideologia anti urbana tipica del ventennio leghista. È già un bel passo avanti rispetto alla narrazione assai banale che di Varese spesso ha fatto la politica locale.

La varesinità, dimensione identitaria alla quale personalmente mi sono sempre sottratta per una sorta di multipolarismo esistenziale,  può quindi essere rinnovata, anche radicalmente. E siccome questa città ha bisogno di riforme radicali, la riformata idea di varesinità di Zanzi è ciò che ci vuole perché il suo governo cambi.

Se c’è una cosa che egli ha fatto con chiarezza è parlare del declino della città, del suo ventennale chiudersi in un auto compiacimento tutto riferito ad un passato svanito ed a un futuro inesistente. Basta con le illusioni sulle magnifiche sorti e progressive della cosiddetta Città Giardino. Guardiamo in faccia alla realtà senza paura di vedere i guasti prodotti da questo mito consolatorio: scarsa vivibilità dell’ambiente urbano, progressivo inquinamento, diffusione del degrado.

E tuttavia senza la varesinità di Zanzi sarebbe assai difficile spiegare ai varesini che la città nella quale vivono non è come gliel’hanno raccontata: la loro anima incline a diffidare difficilmente potrebbe disporsi alla riflessione sul che fare. C’è la farà allora Daniele Zanzi a diventare il candidato sindaco del centro sinistra varesino e finaco il sindaco di Varese? Difficile a dirsi vista la scarsa propensione al cambiamento della città, che alla fine però potrebbe anche non faticare troppo a lasciarsi sedurre dall’idea di cambiare rimanendo sé stessa. Basterebbe consentire anche a chi abita a Besozzo di dirsi varesino, abitante della città di nome e di fatto,  dato che la dimensione urbana va molto oltre i confini amministrativi.

Servirebbe insomma una revisione completa della varesinità, in senso fisico-spaziale e socio-culturale, disposta ad accettare la complessità insita nella dimensione urbana,  anche in quella di Varese.  Molto oltre i campanili delle sue castellanze e i parchi delle sue ville.

Auguri dunque a Daniele Zanzi, che ha ancora molto da percorrere di questa lunga strada verso il cambiamento.
Michela Barzi

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