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Storia

CALDÉ, LA “VILLA DELLA SPERANZA”

FRANCO GIANNANTONI - 28/01/2012

Una splendida villa liberty di Caldè, sulla sponda lombarda del lago Maggiore, fra Laveno e Luino, di proprietà della suddita inglese Audrey Partidge Smith, funse, fra l’ottobre del ’43 e il maggio del ’44, da base operativa del “Servizio assistenza” del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia ai “prigionieri di Mussolini”. Si trattava dei militari Alleati che all’8 settembre, alla firma dell’armistizio, soli, privi di mezzi, disperati, tentavano dal luogo della loro prigionia, senza conoscere l’Italia né la sua lingua se non poche parole, di raggiungere il confine italo-svizzero prima che fossero catturati dai nazifascisti. La RSI ne aveva ordinato l’immediato arresto. Una pagina di storia contemporanea poco nota e che ebbe profonde radici nella nostra terra.

Il 10 settembre 1943 con la circolare telegrafica n. 53247/451 “Liberazione sudditi nemici internati” inviata ai “questori competenti e direttori campi di concentramento” il capo della polizia Carmine Senise aveva disposto “vista la conclusione dell’Armistizio con le potenze alleate, la liberazione dei sudditi degli Stati nemici internati. A quanti fra loro non hanno la possibilità di trovare una nuova sistemazione, può essere consentito di restare nei campi o nei Comuni d’internamento, continuandosi la corresponsione del sussidio giornaliero”.

In complesso i militari erano circa 7settantamila, disseminati in settantacinque “campi di concentramento per prigionieri di guerra” (anche civili), catturati sui vari fronti dopo il 1940. Americani, inglesi, neozelandesi, australiani, sud africani, indiani, russi, francesi, polacchi, greci, albanesi, e di altre nazionalità (compresi gli ebrei). Quelli che si trovarono al Nord trovarono nella struttura organizzativa creata da Ferruccio Parri, dirigente dell’Ufficio Studi della Edison e futuro vice comandante del Corpo Volontari della Libertà (“Maurizio”) e affidata all’abilità strategica dell’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi, “Nino”, direttore della Face Standard d Milano, un’azienda che produceva consegni elettrici, marito della Partidge, il modo di portarsi in salvo. Bacciagaluppi, membro del Partito d’Azione, sodale di Parri e di Leo Valiani, si era gettato nell’impresa, con tutto il coraggio di cui era capace.

Il progetto, per quanto riguarda il Centro di Caldè, ebbe ottimi risultati come risulta dal Rapporto ufficiale redatto da Bacciagaluppi alla fine del conflitto mondiale e inviato al Comando militare anglo-americano, con un bilancio di ottocento-mille militari portati in salvo. Molti di coloro che non riuscirono a contattare il Centro e rimasero intrappolati sul territorio italiano del Nord, aderirono alla Resistenza, combattendo valorosamente fra l’Ossola, il Varesotto, il Comasco e la Valtellina. Alcuni di loro militarono nel Gruppo “5 Giornate del Monte San Martino” del tenente colonnello Carlo Croce: lo statunitense Carlo Hauss (che in battaglia si arrese ai tedeschi), gli inglesi Albert Holloway e Albert Hust, i francesi Giorgio Vabre (arrestato, deportato a Dachau si salverà) e Antoine Domeneque, il russo Vittorio Popov, il sud africano Harwey Sinclair addetto alla stazione radio rice-trasmittente (questi, sbandato in Svizzera dopo il rastrellamento del San Martino, volle rientrare in Italia per battersi nella Repubblica dell’Ossola nelle fila della “Giovane Italia” e poi della “Valgrande Martire”).

La macchina organizzativa del Centro d’Assistenza era ben oliata. Nulla era dato al caso. I rischi di una caduta erano enormi. La caccia del nemico era aperta e dispiegata in ogni direzione. Gli informatori, collegati a Parri, simpatizzanti o aderenti al Partito d’Azione, dal territorio metropolitano milanese, prendevano contatto con la base di Milano, al bar Arengario, dove un Agente del Servizio, nella maggior parte dei casi l’ebreo triestino avvocato Arturo Paschi alias Alberto Pasini (sulla cui figura il 24 gennaio alle ore 20,30 nel salone di via De Cristoforis per il “Giorno della Memoria” sarà presentato il libro “Il segretario di Nino” scritto dalla figlia Rossella Paschi, per Arterigere, Varese), ignoto in città e, in quanto semita, congedato dal servizio militare a causa delle leggi razziali del ’38, aveva il compito (a sua volta in contatto con il medico Amos Chiabov, pure triestino, e capo del servizio sanitario del CLNAI e con Sergio Kasman “Giorgio” ) di organizzare il viaggio sino a Caldè dove Bacciagaluppi e la moglie stabilivano, a seconda del momento, in quale direzione inviare i prigionieri. In quella sede avveniva un’operazione importantissima ai fini del controllo dei movimenti. Ad ogni fuggiasco veniva consegnata una scheda con le generalità e il luogo da dove era fuggito. Al passaggio in Svizzera la scheda, controfirmata, veniva affidata all’accompagnatore che a sua volta la faceva avere al Centro di Caldè. In quel modo il flusso migratorio veniva tenuto sempre sotto stretto controllo.

Una volta individuato con esattezza il luogo dove i fuggiaschi si erano radunati dopo la fuga dai campi di concentramento fascisti (in genere cascinali dell’hinterland di Milano), Arturo Paschi li raggiungeva o si faceva raggiungere a seconda dei casi, forniva loro il denaro, poche centinaia di lire ciascuno, e i documenti, li vestiva con abiti civili e li dotava di robusti scarponi (che regolarmente, una volta toccato il confine, venivano restituiti all’accompagnatore per essere usati da altri) e li imbarcava a gruppetti non superiori alle quindici unità sui tram cittadini e poi sui treni con l’ordine assoluto di non parlare e di evitare di entrare in rapporto con chiunque. Se le ferrovie erano “le Nord”, una volta giunti a Varese, l’Organizzazione si preoccupava con propri delegati di trasferire i fuggiaschi a Cantello e da lì al Gaggiolo o in tram sino a Ganna e Ghirla per indirizzarli con apposite guide o spalloni a Voldomino dove, presso la parrocchia di don Pietro Folli, funzionava un efficiente servizio di soccorso (il sacerdote in contatto con il gruppo genovese del cardinale Boetto e con la Delasem, la struttura ebraica svizzera per l’aiuto agli ebrei, pagherà con l’arresto e il carcere questa sua opera di solidarietà). L’approdo a Laveno Mombello presagiva, al contrario, un passaggio via-lago verso Luino per toccare il Monte Lema o il Monte Limidario sulla sponda piemontese del Maggiore.

Il Servizio Assistenza aveva succursali anche in altre città, a Torino (per i fuggiaschi piemontesi), a Brescia, a Bergamo (per i prigionieri che venivano dal Veneto), a Mantova (per chi era fuggito dalla fascia lombardo-emiliana). Funzionò con efficacia sino in primavera. Poi una delazione mise fuori gioco Arturo Paschi il 10 dicembre 1943: sorpreso da agenti dell’UPI-GNR, caricato su un taxi, aveva tentato la fuga ma fu abbattuto da una raffica di mitra che gli perforò in vari punti l’intestino. Morente, venne portato a San Vittore e da lì all’Ospedale di Niguarda dove l’organizzazione dei commercianti Cucchi di Milano riuscì cinque giorni dopo a farlo evadere e, seppur in gravi condizioni, a portarlo in un secondo tempo in Svizzera. Paschi aveva addosso il cifrario segreto dell’organizzazione ed era decisivo sottrarlo al più presto ai suoi aguzzini. La stessa sorte capitò all’ingegner Bacciagaluppi in missione a Milano: arrestato, portato in carcere, riuscì ad evadere nell’aprile del ’44 con l’aiuto di una persona di Busto Arsizio che cercò, senza trovarla, per tutta la vita. Quell’angelo sconosciuto gli aveva permesso di disporre delle chiavi di San Vittore per fuggire. “Fu per me un cruccio – mi disse qualche anno fa ultranovantenne, ma lucidissimo, in uno dei tanti incontri a Milano – ma, malgrado mille tentativi, non riuscii a dare un nome a quella persona”. Una volta libero Bacciagaluppi passò in Svizzera dove divenne, con il nome di copertura di “Joe”, capo della Delegazione Militare del CLNAI di Lugano in stretto contatto con gli Alleati.

Non fu un compito facile. Gli Alleati come è noto diffidavano della Resistenza che avrebbero voluto alle loro dipendenze, guardavano con sospetto ad un esercito popolare autonomo per la “guerra grossa” come desiderava Parri ma puntavano su piccole formazioni dedite a attività di intelligence, a sabotaggi e a azioni di basso profilo. La Resistenza doveva essere la “ruota di scorta” degli Alleati che temevano alla Liberazione un colpo di Stato comunista. Un timore che non aveva ragione di essere, frutto di pura propaganda.

“Joe” sul tavolo delle trattative in Svizzera, per avere armi e denaro per la Resistenza, aveva messo quel tesoretto del Servizio d’Assistenza che era servito mesi prima a mettere in salvo circa mille “prigionieri di Mussolini”. La mossa ebbe successo. “Joe” fu ringraziato. Churchill prese atto dell’opera meritoria di quell’italiano. Qualche mese dopo, negli accordi di Caserta e di Roma, gli Alleati avrebbero finanziato con centosessanta milioni al mese la Resistenza italiana.

Arturo Paschi rientrò a Trieste dalle cliniche elvetiche solo nel dicembre del ’45 ancora sofferente e continuò a battersi per la causa della sua città, lasciando il segno della sua fine cultura. L’azionista Ferruccio Parri resse il primo governo democratico sino al novembre del ’45 per essere poi brutalmente sbarazzato dal centrismo democristiano filo atlantico. Giuseppe Bacciagaluppi, dopo qualche anno trascorso alla Face Standard, divenne per quattro decenni il brillante direttore sportivo dell’Autodromo di Monza, dando un contributo decisivo all’ammodernamento dello storico anello da corsa. Il giovane Sergio Kasmam era caduto per mano fascista nel dicembre del ’44. Avrà la medaglia d’oro al Valor Militare. I fedeli collaboratori del Servizio Assistenza di Caldè ricevettero il certificato d’onore del maresciallo Harold Rupert Alexander, comandante in capo delle Forze Alleate, per aver ben servito la causa della libertà. La signora Audrey Partidge Smith con il marito non mancò di trascorrere lunghi periodi di vacanza a Caldè. Ora riposano nel piccolo cimitero di San Pietro.

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