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Donne

LA GENEROSA TROVATELLA

LUISA NEGRI - 29/01/2016

Luigia Sanvito in un ritratto dalla Galleria dei benefattori dell’Ospedale di Circolo

Luigia Sanvito in un ritratto dalla Galleria dei benefattori dell’Ospedale di Circolo

Nata a Barcellona da padre ignoto, Luigia Sanvito (1819-1897) in tenera età fu consegnata dalla madre a una compagnia di girovaghi, che l’abbandonò in Italia. L’accolse e allevò Teresa Pranzati, caritatevole merciaia di Lodi, poi custode nella casa milanese di Silvestro Sanvito. L’imprenditore, proprietario della villa varesina La Quiete, sposò Luigia in età avanzata, lasciandola alla sua morte erede di un cospicuo patrimonio che la consorte destinò a Istituti e Opere di Carità.

Sono nata il 17 di giugno del 1819, a Barcellona. Rimasi là fino ai due anni finché, mi raccontò un giorno qualcuno, m’accolse una famiglia di girovaghi che mi condusse, di paese in paese, da un mare all’altro, in Italia. Non ho naturalmente ricordi dei giorni e mesi di quei primi anni di vita. Eppure, quando nella mia ormai consolidata esistenza di donna, all’arrivo dell’estate mi coglieva la nostalgia e mi capitava di pensare ai miei ignoti genitori e alla patria lontana, mi pareva di sentire nell’aria l’odore del mare e del vento che s’infilava nel chiarore delle ramblas e si mischiava al profumo dei gelsomini del giardino, fino a stordirmi e a farmi impallidire. Non ho mai voluto visitare la Spagna. Un viaggio là mi sarebbe stato insostenibile, non una sola traccia significativa avrebbe potuto far luce sulla mia nascita. Ne sarei tornata, ne ero sicura, con un senso di solitudine e di smarrimento incancellabili. Io ho cercato invece sempre di essere contenta della vita, quella che mi è stata data. Che non è cominciata bene, ma mi ha offerto vicende tanto alterne da rivelarsi comunque ricca, come a pochi è concesso. La mia è stata tutto tranne che un’esistenza normale. Potrebbe anche apparire inventata: perciò ne parlo solo a chi mi conosce bene e può credere alla veridicità di queste parole. Ci sono tracciati così distanti tra loro, che percorrono come diagonali incompatibili la mia infanzia, l’adolescenza e la maturità.

Dei miei primi anni non conservo ricordi rassicuranti; intendo quegli sprazzi di luce che i bambini molto piccoli si portano appresso nella loro vita di adulti. So di persone che memorizzano la serena chiarità delle stanze domestiche, il biancore del seno materno o il sentore dolciastro del latte sulle labbra. A me sono rimaste rare immagini, impresse in colori vividi, fissate in sensazioni brevi e brucianti. E le luci sono quelle buie della notte: con le voci diacce del silenzio e del gelo. Una sola, remota visione mi rimanda al crepitio di un fuoco grande che allarga la sua lama di luce guizzante sopra il cielo: un cielo chiaro d’estate, fiorito di stelle. Forse era già cielo d’Italia, perché un ricordo vicino a quello m’angoscia ancora: l’abbandono in una vecchia strada di una cittadina di pianura. Persi anche l’unica certezza delle voci tristi o sguaiate di sempre, delle mani ruvide e scure che mi spingevano da un posto all’altro, che mi sollevavano senza alcun garbo quando bisognava fare presto. Non sapevo ancora che quel distacco, forse già calcolato in precedenza dai miei poco scrupolosi custodi, sarebbe stato l’inizio della mia fortuna.

Entrai da quel giorno nella casa e nella vita di Teresa, che ebbi cara come una madre e mi tenne con sė come figlia. Non fu troppo difficile passare dalla mancanza di tenerezze dei miei custodi girovaghi alle sue premure e al calore di una vera famiglia. Imparai in fretta a riconoscere l’odore della buona minestra e del pulito che emanava dalla pur modesta casa che mi aveva accolta: due stanze al piano terra, vicino a un locale che fungeva anche da merceria -quello della merciaia era il primo lavoro di Teresa- e da laboratorio sartoriale. Quel locale che sapeva di muffa mi pareva un piccolo paradiso, dove lavoravo di fantasia quando vedevo arrivare le signore e signorine che non disdegnavano di venire loro da Teresa, anziché far andare la sarta a domicilio, come s’usava allora. Spesso dalle loro belle bocche uscivano a bassa voce frasi velate di pianto. Troppe volte vidi le lacrime su quelle gote rosate di cipria. Raccontavano a Teresa i loro dolori, le delusioni di mogli e di madri. Lei ascoltava, discreta e comprensiva, a sua volta presa dalle tribolazioni di quelle donne, non dissimili dalle sue di vedova senza figli.

D’estate Teresa apriva le finestre sul cortiletto interno della casa. Mentre giocavo sul lastricato tiepido di sole vedevo le sue mani correre leggere sulla stoffa: le dita s’impuntavano con abilità nella seta, più che nelle rigide stoffe invernali, un punto dopo l’altro. E percepivo l’odore dei tessuti, che sapevo diverso a seconda della consistenza e delle stagioni. La sera lei s’attardava vicino al lume fino a notte inoltrata, dopo avermi rimboccate amorevolmente le coperte. A volte fingevo di dormire per vederla lavorare: i miei sfinimenti dopo il gioco non mi impedivano di cogliere i sacrifici che aveva raddoppiati anche per amore mio. Perché posso davvero dire che fosse amore il suo, più forte di qualunque sentimento nato dal legame naturale. Conosceva, la mia protettrice, sentimenti che mai più avrei ritrovato in altre creature. E esercitava quella sua missione, che si era ritrovata come un dono già in età matura, con una grazia che doveva arrivarle da non so quale mondo. Nel tempo gli occhi cominciarono a darle problemi e fu giocoforza per lei trovare un nuovo lavoro. Chiese con umiltà un posto di portinaia e cameriera. E non tardò a trovare, per le doti di gentilezza e bontà innate che la rendevano cara ai più. Ci trasferimmo dunque a Milano. Incontrammo, proprio nella nuova casa dove Teresa svolgeva mansioni di inserviente, colui che sarebbe stato un giorno mio marito e che mi avrebbe elevata, dalla condizione di trovatella senza una storia, al rango di governante di una casa signorile e, infine, di consorte di un uomo ricco e importante.

Quando Teresa morì dovette intuire quale sarebbe stato il mio destino che lei stessa aveva contribuito a costruire per me: e mi raccomandò di conservare le doti di magnanimità, riservatezza e umiltà che mi aveva offerto con il suo continuo esempio.

La villa varesina in cui mi trasferii con l’uomo che mi fu prima padrone, poi marito, era un’abitazione di importanza storica. Io sentivo doppiamente il peso di certe presenze: si diceva che le viscere di Francesco III d’Este, signore di Varese, fossero state seppellite in giardino.

E in realtà la tomba del Duca fu per diverso tempo nella località detta la Quiete che proprio uno zio di mio marito aveva acquistato. Costui era stato attendente di campo di Napoleone e ne avevamo anche la prova: in casa era custodito un piccolo ma prezioso cannocchiale, servito all’imperatore nelle sue operazioni di guerra. Lo zio di mio marito era persona amante delle cose belle: lui stesso aveva provveduto ad arredare la casa con finissime tappezzerie, mobili pregiati e quadri di artisti importanti. L’orgoglio della villa erano due caminiere con mosaico d’argento, madreperla e tartaruga ad intarsio finemente levigato, frutto del lavoro paziente e raffinatissimo di un artigiano rinomato: ciascuna aveva nel mezzo un prezioso orologio a pendolo. Di questa casa io mi presi cura con amore e trepidazione. Sentivo nella storia di chi l’aveva abitata la storia che era mancata a me.

Condividevo anche l’impegno del mio compagno, che era un rinomato imprenditore serico, nel sostenere i doveri imposti dalla sua posizione sociale. Ma cercavo di non apparire troppo. Certe occhiate invadenti o fugaci spiegavano più dei pettegolezzi che qualche signora nata bene imbastiva alle mie spalle. Per non farmi involontaria complice delle bassezze che si alimentano nei salotti di provincia imparai nel tempo a non sentire quanto mi avrebbe solo fatto del male e a ignorare facce e discorsi che non mi piacevano. E poiché non avevo dimenticato le mie origini povere, anche in sintonia coi desideri di mio marito, mi dedicavo soprattutto a opere di bene. Le fatiche di Teresa mi furono sempre davanti. Aiutavo le persone che si rivolgevano a noi, le operaie dell’opificio che arrivavano da lontano, ragazze che in parte mi ricordavano lei e me stessa in anni passati. Imparavo intanto ad amare la mia nuova città, la casa e il suo giardino di mezza collina, l’aria fine, i colori a volte acquerellati, a volte sanguigni, di questa terra che mi è tanto cara. Le vicende della mia vita mi hanno più volte indotta a riflettere su chi sarei potuta essere se quella sera Teresa non mi avesse accolta con sé. Se i girovaghi non mi avessero lasciata come un cencio all’angolo di una strada forse sarei cresciuta con loro, sarei stata per sempre zingara, magari anche ladra, adescata da qualche uomo nella prima bettola di paese, più libera, o al contrario, prigioniera di una esistenza miserabile. Certe domande non hanno risposta. O forse c’è una sola risposta: la vita è quella che si vive, quella cui devi guardare in faccia, giorno dopo giorno, per evitare gli inciampi, distinguendo tra luci e ombre, tra bene e male, sapendo che nulla è mai certo né definitivo, che nessuno ci può garantire se la sofferenza o il privilegio sono per sempre. Sulla mia vita s’ è fissata l’ombra della malinconia del mistero, non saprò mai chi furono mio padre e mia madre. Li ho cercati nei miei lineamenti, nei miei occhi, nel colore scuro della mia carnagione e dei miei capelli, nelle inquietudini che ho tenuto a freno senza indulgere ai rimpianti. Mi sono illusa di sentire la loro presenza nelle azioni e nelle decisioni della mia vita che più hanno contato per me.

Da mio marito ho avuto l’affetto e il rispetto che cercavo in un uomo. Mi ha sposato quando era ormai in età avanzata, convinto che fosse giusto dare alla donna che gli era vicina da anni, con amore e premura, una dignità che le avrebbe permesso di rimanergli accanto fino all’ultimo, soprattutto nel tempo della vita in cui le cure si fanno più assidue e necessarie. Non ho conosciuto la passione che si consuma nella giovinezza: il nostro affetto è maturato lentamente, ma ne ho sentito tutto il calore e questo mi ha riscaldato più di quella lama di fuoco nelle notti della mia misera infanzia. Col tempo l’affetto è andato sempre più crescendo tra noi, fatto di un amore coniugale che era insieme materno e paterno, fraterno e filiale, da amanti veri. Quando guardavo le mani rassicuranti di mio marito e i suoi capelli bianchi sentivo il mio privilegio pensando alle lacrime amare delle clienti di Teresa, che avevano mariti giovani ma distratti e infedeli. E le sue carezze gentili e lievi mi ripagavano della ruvidezza delle mani della mia infanzia. Credo che l’amore tra noi due sia stato il più bell’amore che possa esserci tra un uomo e una donna. La passione era nella gentilezza, negli sguardi complici, nelle affettuosità rispettose, nel suo e mio intento di vederci appagati e vivere l’uno per l’altra. Stessi ritmi, stessi interessi, stessi modesti e semplici desideri. Era soprattutto nel piacere di volerci bene pensando anche agli altri e alle loro necessità. Ora, in quest’ultima parte della mia vita, mi sto dedicando a opere pie cui mio marito teneva molto e alle quali da lungo tempo provvedevamo insieme. Non lasciamo eredi. Un nipote suo carissimo, che avrebbe dovuto raccogliere le sue volontà e tutto il segno del nostro affetto, mi ha preceduta nell’altra vita. I nostri beni, dopo la mia morte, andranno dunque divisi tra Istituti e Opere di Carità.

Se un giorno qualcuno scriverà di Luigia Sanvito, se avrà una storia su di me da raccontare, sarà non per merito mio, ma in grazia di quell’amore che ha unito il mio compagno a me e noi due al resto del mondo. Soprattutto mi sta a cuore che l’opera di bene intrapresa da Teresa, e proseguita nella mia persona, continui a dare frutti.

Questo mi è di conforto e di speranza nei restanti anni di vita che debbo affrontare da sola.

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