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Storia

LA SCATOLA DI CARTONE

GIOIA GENTILE - 05/02/2016

Vittoria e Renato cercano di riconoscere i resti del loro caro

Vittoria e Renato cercano di riconoscere i resti del loro caro

I colpi risuonarono alle due di notte. Vincenzo e Vittoria si svegliarono di soprassalto. Altri colpi al portone d’ingresso. “Aprite!” Si guardarono e ognuno lesse negli occhi dell’altro ciò che stava accadendo: era arrivato il momento. Erano venuti.

Già da alcuni giorni, dopo l’8 settembre di quel 1943, si parlava a Parenzo dei rastrellamenti che i comunisti slavi partigiani di Tito andavano facendo di casa in casa: cercavano coloro che ritenevano compromessi col regime fascista, o anche semplicemente gli italiani, li portavano via nel cuore della notte e non se ne sapeva più nulla. Vincenzo temeva che prima o poi sarebbero venuti a cercare anche lui, romagnolo, giunto in Istria con l’esercito italiano durante la prima guerra mondiale e lì rimasto, per avervi conosciuto e sposato Vittoria, il suo amore.

Altri colpi al portone. Vincenzo si rivestì in fretta e scese ad aprire. Vittoria restò a metà scala, un occhio all’ingresso e uno alle stanze dei figli, col terrore che volessero sottrarle in una notte tutti i suoi affetti.

Entrarono in quattro, armati di fucili. “Abita qui Vincenzo D.?”. “Sono io”. “Devi seguirci”. Non chiese perché. Disse solo “Lasciatemi prendere le mie cose”, ma non si illudeva che gli sarebbero servite. A Vittoria sfuggì un singhiozzo. “Chi piange lì?” domandò brusco uno dei quattro. Il tono minaccioso della voce le fece ingoiare le lacrime. Vincenzo l’abbracciò e le sussurrò in un orecchio “Di’ ai miei figli di non piangere”. Quella fu l’ultima volta che lo vide.

I suoi figli erano al piano di sopra, nascosti, come gli era stato ordinato, e in ascolto. Erano quattro: tre giovani donne di 23, 21 e 20 anni e un ragazzo di 17. Non si mossero, ma avrebbero voluto farlo. Dopo alcuni giorni Elvira, la seconda, riuscì a scoprire dove il padre era tenuto prigioniero e decise di andare a trovarlo, nonostante le proteste della madre. L’uomo armato che era di guardia la fece entrare in un seminterrato buio e basso. I prigionieri, una ventina, erano seduti per terra, appoggiati alle pareti. Vincenzo la vide, l’abbracciò, e le sue parole furono di affetto e di rimprovero: ”Perché sei venuta? Non sai che è pericoloso?”. Lei cercò di rincuorarlo. Gli disse cose a cui nessuno dei due credeva, che la guerra stava per finire e che presto sarebbe stato liberato. E poi gli diede le sigarette: era il suo atto d’amore, il gesto complice con cui erano soliti dimostrarsi l’affetto. Il portasigarette no, gli disse, quello non l’aveva portato, per timore che non lo lasciassero passare. “Hai fatto bene” le rispose ” Conservamelo tu”.

La guerra non finì. Qualcuno avvisò Vittoria che due dei suoi figli erano nelle liste di proscrizione; Elvira aveva il diploma magistrale, Renato stava per conseguirlo; avevano studiato in una scuola italiana sotto il regime fascista: avrebbero potuto trasmetterne l’ideologia alle nuove generazioni. Meglio eliminarli prima. Così Vittoria prese i suoi ragazzi e, una valigia per ciascuno con le poche indispensabili cose, lasciò Parenzo e si incamminò con mezzi di fortuna verso Sogliano al Rubicone, dove vivevano i parenti del marito.

Già nel mese di novembre furono rinvenuti nelle foibe i primi cadaveri. Si scoprì che i prigionieri venivano portati sul luogo dell’esecuzione a bordo di autobus dai vetri verniciati, condotti sull’orlo del precipizio e fucilati. Molti venivano legati assieme per i polsi con fil di ferro; veniva colpito solo il primo che, cadendo, trascinava con sé gli altri. Quando ne fu informata, Vittoria ritornò in Istria per affrontare il doloroso rito del riconoscimento, raggelata nell’animo, senza sapere neppure in cosa sperare. L’accompagnò il figlio. Una foto, sfocata e ormai sbiadita, li ritrae mentre, assieme ad altri, si chinano su una fila di cadaveri, coprendosi il naso con un fazzoletto. Vincenzo non era tra loro.

Il suo corpo fu ritrovato in dicembre nella foiba di Surani. Vi era stato gettato il 5 ottobre, tre settimane dopo la cattura. Fu la cugina rimasta in Istria a riconoscerlo e a seppellirlo nel cimitero di Parenzo, poiché Vittoria, nel frattempo, era ritornata in Romagna. Lo riconobbe dalla stoffa della camicia. Ne tagliò un lembo, raccolse un po’ di terra rossa del cimitero e li mise in una piccola scatola di cartone che consegnò alla famiglia. Disse che lui non era stato legato, ma nessuno le credette.

Parenzo divenne jugoslava e poi croata, cambiò nome e ora si chiama Poreč. Vittoria non vi fece più ritorno. Per molti anni le foibe furono dimenticate, assieme ai loro morti: parlarne non era politicamente corretto.

Negli anni Ottanta Renato riuscì a far riesumare le ossa del padre, che ora riposano nella cappella dei caduti del cimitero di Belforte. Elvira legò la piccola scatola di cartone con un nastrino nero e la conservò in un cassetto per tutta la vita: fu l’unica cosa che le rimase di suo padre, assieme ad una foto e ad un portasigarette di acciaio.

Ora quella scatoletta è nel mio “armadio dei ricordi”. Elvira era mia madre.

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