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Società

LE CARENZE NELL’ACCOGLIERE

FRANCESCO SPATOLA - 05/02/2016

accoglienzaPer non essere sempre travolti da emergenze e allarmismi, una riflessione pacata sul sistema italiano di prima accoglienza dei profughi, cui abbiamo introdotto nel primo articolo del 22 gennaio scorso, deve entrare nel merito della sua organizzazione, che fa acqua da tutte le parti e sembra improntata all’improvvisazione più inerme e alla precarietà più confusa anziché, come sarebbe dignitoso, ad organicità, lungimiranza di visione strategica e programmazione tempestiva.

Le carenze riguardano essenzialmente il canale ministeriale, alternativo allo SPRAR curato direttamente dai Comuni. Il canale dell’accoglienza d’emergenza ministeriale è purtroppo numericamente prevalente a livello nazionale, dove riguarda 2/3 degli oltre 90.000 profughi ospitati; ancor più a livello varesino, dove supera il 90%. Carenze che riguardano il trattamento delle persone ospitate e che si ripercuotono sui diversi territori che li ospitano.

Superare le carenze non significa affatto moltiplicare le risorse, ma gestirle razionalmente con un approccio concreto, realistico e serio, in grado di ottimizzarle sino a produrre risparmi economici e benefici sociali. Criteri tutti che si traducono in alcuni indirizzi fondamentali, per nulla realizzati nell’attuale sistema di accoglienza ministeriale: promuovere il consenso, distribuire equamente, ospitare decentemente e proficuamente, preparando l’integrazione.

a) Promuovere il consenso

La perdurante crisi economica e del welfare pubblico, la pressione mediatica, le strumentalizzazioni di certe parti politiche, l’impreparazione culturale al confronto di civiltà, le paure inconsce del diverso/straniero, remano contro l’idea stessa di accoglienza. È perciò controproducente che il sistema di emergenza ministeriale salti completamente l’accordo con le Amministrazioni Comunali, che sono invece protagoniste del sistema SPRAR.

I sindaci sono autorità civiche elette col consenso dei cittadini ed in stretto dialogo con loro, e potrebbero farsi carico di favorire la sensibilità popolare all’ospitalità delle persone in fuga e in stato di bisogno. Ma come possono farlo se le scelte di collocazione dei profughi vengono effettuate dal Ministero dell’Interno – e, a cascata, dal braccio operativo delle Prefetture – senza coinvolgimento, consultazione preventiva e/o all’ultimo momento, mettendo loro e i rispettivi cittadini di fronte al fatto compiuto, succubi di diktat esterni?

Anche se l’Amministrazione Statale procede con l’acqua alla gola e su input contingenti dai luoghi di approdo dei profughi, l’emarginazione delle autorità comunali dalle decisioni rilevanti non paga, e favorisce i conflitti anziché il consenso.

b) Distribuire equamente

È evidente che il consenso popolare è favorito anche dalla diluizione impercettibile delle collocazioni dei profughi in mezzo alla popolazione, così da non rischiare il disagio dei ghetti. Ossia da una modalità di accoglienza diffusa, anziché concentrata su poche realtà comunali.

Invece, in provincia di Varese solo 38 Comuni su 139 sono coinvolti nell’accoglienza d’emergenza dei profughi, per neanche metà della popolazione provinciale (430.058 su 890.234). Così, il dosaggio che potrebbe essere omeopatico degli attuali 997 profughi prefettizi d’emergenza, pari a 1,1 per 1000 abitanti se equidistribuito su scala provinciale, sale a 2,3 per 1000 nei pochi comuni in cui si concentrano le collocazioni. Ma anche questa è solo una media, con notevolissime oscillazioni: da 0,4 di Luino a 0,6 di Varese a 9,4 di Gorla Minore, che ospita lo stesso numero di profughi d’emergenza del capoluogo Varese (80), che è 10 volte più popolosa!

Eppure, il criterio di ripartizione proporzionale agli abitanti già vale in sostanza rispetto alle Regioni e alle Province – paradossalmente, adottato in corrispondenza della copertura politica del Ministero da parte del partito che oggi più sguaiatamente protesta contro l’accoglienza degli immigrati – e non si vede perché non deve essere attuato sino a livello comunale.

c) Ospitare decentemente e proficuamente, preparando l’integrazione

La qualità dell’accoglienza di emergenza ai profughi, esercitata dai vari enti gestori trovati dalla prefettura, troppo frequentemente non è adeguata alla logica dell’integrazione culturale e socioeconomica che deve presiedere all’ospitalità di medio, se non lungo, periodo.

È infatti evidente che, con gli attuali esasperati tempi di attesa dello status di rifugiato, il tempo minimo di permanenza sul territorio comunale tocca i 12-18 mesi, che raddoppiano in caso di primo diniego e conseguente ricorso, evenienza da ritenersi probabile nel 90-95% dei casi, trattandosi – nella stragrande maggioranza dei profughi d’emergenza varesini – di migranti economici in veste di rifugiati.

Qualora in esito del ricorso lo status venga concesso, almeno nella forma minima del permesso umanitario, è probabile che buona parte dei rifugiati rimanga sul territorio di prima ospitalità, cosicché le carenze dell’integrazione si tradurranno immediatamente in disoccupazione e oneri assistenziali aggiuntivi a carico delle già disastrate casse comunali.

D’altro canto, se invece in seconda istanza dovessero prevalere i dinieghi, la provocata condizione di “irregolarità” – o la “clandestinità”, di cui sbraitano gli oppositori dell’accoglienza – si tradurrà in dispersione sul territorio, anticamera del “lavoro nero” quando non della devianza e del reclutamento di manovalanza da parte dei poteri criminali.

È perciò di importanza strategica per i nostri territori che le modalità di accoglienza siano fin da subito di preparazione all’integrazione, facendo sì che la successiva permanenza sul territorio ne consenta l’inclusione sociale, e non costituisca danno o pericolo per coesione e civile convivenza delle comunità locali.

Rispetto a tale obiettivo, le attuali carenze sono innanzitutto per l’apprendimento della lingua italiana, poi per l’orientamento al territorio e ai suoi servizi, quindi per conoscenza e supporto legale, poi ancora rispetto all’utilità sociale di carattere “restitutivo” che l’aiuto ricevuto dovrebbe generare per il contesto locale, infine per l’accompagnamento occupazionale.

Da tutto quanto sopra, si vede come l’accoglienza di emergenza presenti gravi carenze e sia largamente inferiore alla qualità del sistema SPRAR, che nel varesotto riguarda non più di 87 profughi, un decimo del contingente prefettizio.

Carenze paradossali, se si pensa che l’accoglienza d’emergenza dei profughi prefettizi ha un costo giornaliero di € 35 procapite, superiore del 30% ca. a quello medio del sistema SPRAR (intorno ai 27 €), che invece assicura da sempre tutti gli standard di accoglienza idonei per l’integrazione sociale; e, di conseguenza. non è irrealistico stimare che quasi la metà del prezzo pagato a gestori carenti se ne vada in profitto aziendale anziché in benefici sociali.

Pertanto, restando nella realtà provinciale varesina, non può non suscitare preoccupazione che, nonostante almeno una parte dei gestori abbia caratteristiche realmente sociali e operi anche per l’integrazione, quasi il 60% dei profughi sono ospitati da gestori meramente “aziendali”, in grado di assicurare bensì la componente alberghiera dell’assistenza ed un regime d’ordine stile-caserma, ma poco e nulla quella di integrazione. Così, una spesa pubblica che a livello provinciale assume valori ragguardevoli – ca. 13 milioni di Euro/anno – non costituisce, se non in parte minoritaria, un investimento sociale come meriterebbe, e si presta alle critiche di spreco degli oppositori dell’accoglienza.

In un tale contesto, in cui già l’apprendimento linguistico è molto difficoltoso e l’ambiente esterno resta spesso estraneo, la mancanza di occasioni di inserimento lavorativo contribuisce a deprimere fortemente le condizioni psicologiche dei profughi, a stimolare screzi e accuse di nullafacenza e discriminazione a danno degli italiani, mentre restano sporadiche le stesse esperienze di “restituzione” dell’aiuto con attività socialmente utili a favore della comunità locale.

Ne consegue la forte evidenza d’inderogabile necessità di conversione dell’accoglienza profughi: dal sistema dell’emergenza prefettizia al sistema SPRAR. Occorre riportare ad omogeneità ed equiparare i due sistemi: sia rispetto agli standard di accoglienza sia rispetto ai costi.

L’equiparazione non avrà solo l’effetto di ridurre fortemente i costi dell’accoglienza prefettizia di emergenza e di poter accogliere più profughi con meno soldi, ma avrà anche l’effetto di elevare la qualità professionale e di offerta di prodotti/servizio da parte delle imprese che si rendono disponibili all’accoglienza, migliorando il mercato imprenditoriale complessivo e qualificandolo in senso sociale proprio. Con effetti inevitabilmente positivi sul gradimento dei cittadini: profughi trattati umanamente e tempestivamente integrati nella comunità locale diventeranno essi stessi cittadini nuovi, in grado di arricchire la comunità che li accoglie.

(2 – fine)

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