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Libri

STORIE POVERE, PAROLE RICCHE

CESARE CHIERICATI - 12/02/2016

L'uvamericanaL’ultimo libro di Gualtiero Gualtieri, L’uvamericana, lessico familiare del tempo altrove, edizioni Ulivo, ha due grandi pregi: 1. quello di rivisitare, a voce quieta, tra fine ottocento e inizio novecento, il massiccio, epico e quasi sempre doloroso esodo delle popolazioni del nostro confine lombardo–ticinese. Un cammino di speranza verso un altrove chiamato Francia, Germania, Svizzera, Belgio e soprattutto Merica, cioè il Nord e il Sud del continente americano; 2. quello di partire da espressioni dialettali della memoria dell’infanzia e dell’adolescenza, vissute a Viggiù se non erro, per spiegarne il significato antropologico, sociale ma anche storico grazie a lampi di memoria narrati con sorvegliata ironia.

Avanzando nella lettura di questa nuova tappa del percorso letterario di Gualtieri si visitano luoghi di cui si è persa o quasi la memoria, come Barre, nel Vermont, al confine tra Stati Uniti e Canada, un eden del granito che i migranti nostrani (scalpellini, cavatori, segatori, filisti, manovali di cava e quant’altro) raggiungevano dopo un interminabile e scomodissimo viaggio con i bastimenti – 20 giorni – e poi, via terra, due notti e due giorni di treno.

“Lì imparavano subito due cose, annota l’autore: che la paga era alta perché alto era il pericolo per la salute; e che il grande paese delle libertà non regalava niente a nessuno, anzi… arrivati nel Vermont, si trovavano subito al centro di conflitti sociali tra i peggiori degli USA”. Molti migranti rimasero per sempre lassù, altri rientrarono al paese con qualche dollaro, peraltro utilissimo per le famiglie rimaste, anche il cosiddetto ma da la Merica, ovvero la silicosi che condannava (condanna) alla morte per pietrificazione polmonare. Attraverso documenti, narrazioni e testimonianze dell’epoca, la località del Vermont ci appare come una sorta di “nuova frontiera” industriale e del business nella cui cornice in chiaro e oscuro si stagliano personaggi dai caratteri forti, dai tratti decisi, come la zia Gina che riapproda al paese in tarda età e che con il nipote Gualtiero ha un rapporto forte e tenero al tempo stesso, un personaggio che benissimo figurerebbe in una sceneggiatura di un film di Clint Eastwood.

La seconda parte del libro riprende i percorsi classici dell’autore già felicemente sperimentati nei precedenti volumetti come Cantar di blu, lessico familiare del tempo perso, pubblicato nel 2011. Parole, detti, proverbi, sono spunto per racconti brevi che con grande leggerezza ci rimettono in relazione con il nostro passato prossimo e remoto. Si scopre il perché e il per come di certe espressioni ancor oggi presenti nel comune parlare come “alla carlona, a uff, smemuraa da Cullegn” e altre ancora.

Infine con il suo felpato narrare Gualtieri introduce alcuni, riuscitissimi esempi di come “la storia grande possa entrare nella storia piccola e influenzare il lessico familiare”. In queste pagine si intrecciano infatti memorie di retorica coloniale fascista ancora oggi sedimentate nel nostro conversare, spunto per rapidi approfondimenti di storia che ci portano in Africa orientale nelle terre di Menelik, della regina Taitu, di Hailé Selassié e dell’Amba Aradam, il tipico monte etiopico dalla cima piatta e dai fianchi scoscesi dove tra il 9 e l’11 aprile 1939 si consumò una delle pagine più buie e crudeli del colonialismo fascista.

Chiudono il libro, aperto da una splendida prefazione di Renato Martinoni, due circostanziate postfazioni di Carlo Brusa e Robertino Ghiringhelli.

 L’ uvamericana sarà presentato sabato 20 febbraio alla Galleria Ghiggini di via Albuzzi 17, ore 17.30. Il libro è stato pubblicato con il patrocinio del Rotary Club Varese Ceresio.

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