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Presente storico

IL CULTO DELLE RELIQUIE

ENZO R. LAFORGIA - 12/02/2016

reliquieNei giorni scorsi, la stampa ha dato ampio risalto alla notizia dell’esposizione dei corpi di San Pio da Pietralcina e di San Leopoldo Mandic. Migliaia di persone hanno atteso ore per poter vedere dei corpi senza vita, estrema testimonianza materiale di intense esperienze esistenziali, riconosciute dalla Chiesa cattolica come esemplari (i due frati cappuccini sono stati indicati dal pontefice come modello di quella misericordia cui è dedicato il Giubileo).

Già nel 2008 il corpo di quello che rimane per molti ancora e solo Padre Pio era stato esumato ed esposto. Il vescovo da cui dipende anche San Giovanni Rotondo, monsignor Domenico D’Ambrosio, che assieme ad un’apposita commissione di medici e religiosi aveva seguito l’apertura del sepolcro, aveva commentato: «Se padre Pio mi permette, è come se fosse passato un manicure». L’integrità della salma è prova ulteriore di santità. Tuttavia fu necessaria allora la realizzazione di una maschera di silicone da applicare sul volto scheletrito di un corpo, che era stato sepolto per quarant’anni.

Si usa ancora oggi l’espressione «Essere in odore di santità». Il corpo del santo non conosce la corruzione come il corpo dei comuni mortali. Dal corpo del santo non esala odore di putrefazione, ma profumo di fiori (questo è uno di quegli accadimenti miracolosi, di cui si tiene sempre conto nei processi di canonizzazione).

Il Codex iuris canonici del 1917 (Tit. XVI, can. 1281, par. 2) stabiliva addirittura una sorta di gerarchia, un ordine di importanza delle reliquie dei santi e dei beati: «Insignes Sanctorum vel Beatorum reliquiae sunt corpus, caput, brachium, antibrachium, cor, lingua, manus, crus aut illa pars corporis in qua passus est martyr, dummodo sit integra et non parva». L’attuale Codice di diritto canonico, entrato in vigore nel 1983, si limita a rammentare che «è assolutamente illecito vendere le sacre reliquie» (L. IV, p. II, tit. IV, can. 1190).

«La dispersione dei santi tramite dispersione delle reliquie inizia nell’Alto Medioevo, e non sembra incidesse sulle capacità dei santi stessi di operare miracoli. Gente pragmatica, i fedeli avevano un metodo sicuro per valutare l’autenticità delle reliquie: se funzionavano, cioè se emanavano profumi fragranti, risanavano malati e sventavano naufragi, erano autentiche, se no, no; e spesso funzionavano».

Riprendo questo paragrafo da un bel libro uscito nel 2014 e pubblicato dall’editore Einaudi: Guido Barbujani, Lascia stare i santi. Una storia di reliquie e scienziati. L’autore è uno scienziato, un genetista, per la precisione, e in questo volume racconta la storia che lo ha visto protagonista. Nel 1998 fu incaricato dal vescovo di Padova di analizzare il DNA di uno scheletro senza testa sepolto nella basilica di Santa Giustina, nello stesso capoluogo veneto. L’indagine mirava ad accertare se quelle spoglie fossero davvero i resti di San Luca evangelista. Il libro è dunque la cronaca di una ricerca, che vede impegnati, accanto a Barbujani, archeologi, storici e filologi. È la storia dei viaggi che l’autore ha dovuto affrontare in Siria, tra Oriente e Occidente, nei luoghi che si contendono la sepoltura del santo. Ma è anche una suggestiva ricognizione di quel singolare culto delle reliquie, che ha attraversato la storia dell’Europa cristiana.

Ora, il culto del corpo, il fare del corpo reliquia, attribuire cioè ai resti mortali poteri e virtù miracolosi non riguarda solo le religioni. La storia è piena di cadaveri eccellenti. Sono famose le mummie di Lenin, Stalin e Mao Zedong. Famosa è anche la mummia di Giuseppe Mazzini, preparata dal medico lodigiano Paolo Gorini ed esposta un’ultima volta nel 1946 (gustoso il racconto che ne fece Vittorio Beonio-Brocchieri nel volume Mio zio pietrificò Mazzini, del 1965).

Forse il corpo laico più sfortunato fu quello di Léon Gambetta, il popolare uomo politico francese di origine italiana (il padre era genovese). Gambetta morì per uno strano incidente nel 1882: si era ferito alla mano con un colpo di pistola alla presenza di un’amica. La ferita gli procurò un’infezione e, dopo una lunga agonia, morì l’ultimo giorno dell’anno. Dopo ventiquattr’ore, fu iniettato nel cadavere del cloruro di zinco, a scopo conservativo. Dalla relazione autoptica, pubblicata nel 1883, apprendiamo che gli organi interni erano ormai quasi del tutto compromessi. Alla fine del meticoloso lavoro di ispezione, i medici pensarono di trattenere per sé qualche pezzo dell’illustre cadavere: il cervello, conservato in un barattolo, fu poi consegnato al museo di antropologia comparata del celebre dottor Paul Broca; un medico, invece, avvolse in un foglio di giornale il cuore, poi accolto nel Panthéon; un altro tenne per sé un pezzo del braccio destro; un altro ancora scelse i visceri. Ma Gambetta vanta un particolare primato: un pezzo del suo corpo divenne reliquia da esposizione mentre era ancora in vita. All’età di quindici anni aveva riportato una ferita ad un occhio. Nel tempo, l’occhio si era poi infettato e rischiava di compromettere la vista. Fu così necessario, nel 1867, procedere alla sua enucleazione. Ancora oggi l’occhio di Gambetta può essere contemplato nel Museo Henri-Martin di Cahors, sua città natale.

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