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Politica

AVANTI CON L’EUROPA

GIUSEPPE ADAMOLI - 18/03/2016

SchengenL’Italia negli anni Novanta era un Paese largamente europeista. Oggi molto meno. Avevamo ragione allora o adesso? Se togliamo da una parte gli eccessivi entusiasmi di vent’anni fa e, dall’altra, la pregiudiziale contrarietà degli irriducibili euroscettici, il giudizio era fondato sia allora che oggi. In quell’epoca era forte la speranza  che i vincoli europei avrebbero potuto raddrizzare i nostri difetti congeniti. Infatti per lunghi anni l’ancoraggio europeo ci ha preservato dal compiere ulteriori errori e ci ha parzialmente liberati da molti vizi consolidati. Ora però tutto questo non basta più. Si sente che l’Europa non si è rivelata all’altezza di ambizioni e sogni.

L’analisi è complessa. Cosa vedono gli occhi meno esperti cominciando dalle preoccupazioni? Che la Commissione (in pratica il governo europeo) conta molto meno del Consiglio Europeo che riunisce i premier dei singoli Stati. Che il Parlamento, eletto a suffragio universale, ha aumentato gradualmente i suoi poteri che però restano sempre limitati. Che la produzione legislativa è vasta ma di piccolo cabotaggio mentre raramente affronta i grandi problemi sul tappeto. Che l’austerità, ad un certo punto necessaria, ha poi frenato la crescita. Sotto questo profilo sta facendo molto di più, pur con i suoi limiti istituzionali, la Banca centrale di Draghi che non il governo europeo.

Le migrazioni dal Medio Oriente e dall’Africa saranno il banco di prova più difficile per l’Europa. Tenere sotto controllo i flussi è necessario ma se si spegne la luce di Schengen (libera circolazione di persone e merci) il rischio è che si porti con sé la fine dell’Europa. I muri e i fili spinati non rispondono alla originaria idea di grande e libera Europa. Probabilmente l’allargamento ad Est è stato affrettato e rispondeva più alle esigenze della Nato nel suo contrasto con la Russia  che non a quelle europee. Una riflessione autocritica di Prodi, quale ex Presidente della Commissione, indomito protagonista di tale apertura, non sarebbe affatto inutile.

Hanno dunque ragione gli euroscettici? Assolutamente no. La demolizione sistematica dell’Europa sarebbe una catastrofe  culturale, sociale, economica, politica. È bastata alcuni mesi fa la profonda crisi della Grecia (in fondo un piccolo Paese, benché fortemente simbolico) per far tremare il continente. L’espressione più efficace, anche se molto abusata, è che siamo in mezzo al guado. Come un alpinista in un punto dal quale è estremamente più pericoloso tornare indietro che proseguire.

Il governo italiano ha recentemente cambiato registro rispetto al passato prossimo chiedendo non soltanto il solito “cambio di passo” ma anche di linea. Ha ragione Mario Monti quando predica l’arte della diplomazia nelle stanze europee, oppure chi mette in campo una notevole forza d’urto per chiedere più crescita, flessibilità, politiche espansive, solidarietà non a senso unico soprattutto verso l’Est e il Nord Europa? La diplomazia è il braccio (armato quando serve) della volontà politica, altrimenti è solo buone maniere.

Le crisi (non trovo altre definizioni) delle due grandi forze politiche continentali, il Partito Popolare e il Partito Socialista sono insieme causa ed effetto dei tormenti europei. Il primo ha imbarcato quasi tutto ciò che non era di sinistra diventando un carrozzone disomogeneo. Il secondo è la pallida controfigura della grande socialdemocrazia che fu.

Affermare che ci vogliono gli Stati Uniti d’Europa è uno slancio ideale che si sposa con il mio istinto ma è una fuga in avanti. Il futuro si costruisce pragmaticamente, qui ed ora, con più politica e meno burocrazia.

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