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Il racconto

IL POMERIGGIO

GIOVANNA DE LUCA - 18/03/2016

neveSollevò la tenda per vedere se avesse cominciato a nevicare: il cielo era grigio, compatto, ma non c’era segno di neve sulla strada. In lontananza vedeva le illuminazioni natalizie già accese nel primo pomeriggio. Infilò il cappotto, calzò il cappello e tornò, dal pianerottolo, a prendere il bastone. Non ne aveva una necessità assoluta, ma gli dava sicurezza, era bello e se capitava, mentre era fermo con qualcuno, lo faceva un po’ roteare parlando.

All’ingresso incrociò la signora X, vedova, condomina e probabilmente sua coetanea: detestava un certo tipo di donna anziana, troppo pronta alla familiarità, logorroica e pettegola. Due parole e via, fuori.

Ecco qui, pensò con un impercettibile moto di gioia, mi godrò un po’ la città prenatalizia, senza che la neve mi chiuda in casa.

Il primo incontro fu uno scontro: due adolescenti, gaiamente starnazzando sui rispettivi smartphone, correndo gli andarono addosso e quasi gli strapparono il bastone. Irritato borbottò qualcosa, mentre si raddrizzava il cappello che pure aveva risentito dell’urto.

Niente più educazione. Guardare chi ti viene incontro. Guardare dove si mettono i piedi. Stare attento. A tutto.

Esistono per fortuna spazi più grandi dove camminare, pensò mentre usciva dai portici e si metteva nel mezzo del Corso.

L’ora del primo pomeriggio non lo rendeva ancora affollato, cosicché poteva godere della prospettiva delle vecchie case, ormai tutte restaurate, della piccola piazza con il monumento e, da una parte, della giostra che festosa turbinava le sue luci e i suoi canti.

Un altro Natale. Un perenne Natale, poiché la ricorrenza sembrava susseguirsi a tappe sempre più brevi, e tutte uguali.

Pure era gradevole, ora, essere qui: le luminarie,dovunque profuse, le vetrine, le luci…la vita.

L’omologazione collettiva da decenni imperante, che egli aveva tanto spesso stigmatizzato, con articoli e scritti, sembrava nascondere il suo squallore davanti all’albero di Natale in pieno centro: noi, almeno noi, dicevano le luci variopinte, palpitanti, siamo una diversa dall’altra, una rossa e una blu,una verde e una gialla, ed è per questo che l’insieme è così bello a vedersi!

Non altrettanto l’acciottolato della strada, caspita (e gli scappò una parolaccia mentre incespicava) cui gioverebbe il massimo dell’omologazione… Ma non lo sanno quanto è numerosa la popolazione anziana, che cade facilmente?

Intanto si era portato fuori dal Corso, su una strada da poco rifatta, pedonale, abbellita da vasi e piante. Mirava ad un certo caffè-pasticceria di chiara fama, perché voleva una cioccolata. Sicuro, proprio una cioccolata.

La trasgressione. L’orrore: la glicemia, compagna del colesterolo, dei trigliceridi… E sarebbe morto in un modo diverso, rise tra sé, con i valori giusti, nella sua bella casa, tra i suoi libri (troppi)…zero persone accanto? E non era meglio morire ubriaco, al tavolo di una cucina popolare, morire di sbornia, sì, con i valori sballati…zero persone accanto? La stessa identica cosa.

Mentre paradossi di tal genere gli frullavano in capo, entrò nella pasticceria e vide alzarsi da un tavolo,  per uscire, una donna giovane: un lampo, una spaccatura in mezzo al petto, un infarto dell’anima. Per un secondo rivide lei.

Intanto si sedette, si accomodò nel migliore dei modi, rispose al saluto deferente e  un po’ untuoso di un gruppo di persone che non conosceva (ma tutti in città conoscevano lui) e s’impose uno stop: memoria, ferma; dolore, sepolto; vortice di vuoto, non prevarrai.

Era accaduto trent’anni prima.

L’appuntamento, uno degli abituali, questa volta era stato fissato in una delle più belle località della riviera ligure di levante. Nel giorno stabilito, il treno di lui era arrivato puntualissimo. Preparandosi a scendere, egli aveva in anticipo aguzzato lo sguardo: sapeva che lei era lì da due giorni e sperava di vederla dal finestrino, arrivando, inquadrata dalla porta della piccola stazione, con quella sua figurina elegante, anche se non slanciata, e quell’aria un po’ infantile e insieme sicura.

Non c’era. Non significava niente. Non gli aveva detto: “Vengo a prenderti alla stazione”. Però egli lo aveva sperato, dopo una separazione questa volta lunga.

La trovò ad aspettarlo nella hall dell’albergo, allegra, affettuosa, bellissima: con qualcosa però di indefinibile, un po’ sopra le righe.

La mattina dopo andarono a passeggio sul lungomare e lei volle, anche se era ormai ora di pranzo, camminare ancora avanti, fino a quando si trovarono in un tratto ormai deserto. Allora  infilò un braccio sotto il suo, gli si strinse, e con la bocca quasi all’orecchio gli disse: “Sai, devo dirti una cosa bellissima”.

Senza una plausibile ragione, egli sentì un brivido freddo percorrergli la schiena. La guardò, interrogativo. “Mi hanno offerto un posto di lavoro in America”.

Lo disse. Lo guardò, ed attese. Egli tacque: la vide allontanarsi, come se danzasse raggiungere il parapetto, sporgersi sul mare gridando ai quattro venti: “Vado in America!…vado in America!”. Poi corse a lui, gli circondò il busto con le braccia stringendo, gli sussurrò: ”Ti vorrò sempre tanto tanto bene”.

Può il tempo di un verbo cambiare una vita? Poiché lei aveva detto ”ti vorrò”, non “ti voglio”. Futuro semplice. Semplice come la situazione: un uomo di cinquant’anni ama una ragazza di trenta. Una che lavora nel cinema, in un gruppo di sceneggiatori. È brava. Ma non la sostengono: è giovane, è donna. Un giorno qualcuno nota il suo talento, scommette su di lei (sul lavoro soltanto? così lei crede…). Le dice: “Vieni con me in America, c’è un grande film, un grande regista, un grande attore, è un’occasione unica…”. È lavoro. Affermazione. Carriera. Lei va. È giusto.

Alzando gli occhi dalla tazza della cioccolata si guardò intorno: c’era una coppia al tavolo di fronte, un gruppo di ragazzi semisdraiati sulle sedie a destra, più in là due bambini si contendevano qualcosa. “Cosa ci faccio qui?”, si domandò. Era quasi buio, pagò, uscì: meccanicamente. Meccanicamente dimenticò il bastone, meccanicamente tornò a prenderlo. La mente era altrove.

Trent’anni. Quindi ora doveva averne sessanta. Si erano telefonati i primi anni, si erano scritti. Lei appariva sempre raggiante, parlava di grandi cose, di grandi eventi. Gli aveva ripetuto: “Vieni, vieni anche tu!”. Non era come dirlo, né avrebbe potuto. E non lo voleva. Nemmeno incontrarla. A che scopo stare insieme tre giorni, una settimana, sapendo che poi… Nel tempo le telefonate, le lettere, si erano diradate sempre più.  Alla fine più niente.

“Ti vorrò sempre tanto tanto bene…”. Dove? Dove gli voleva tanto tanto bene adesso? A New York? A San Francisco? In Arkansas o in Virginia? Non aveva forzato il rapporto mai, nemmeno agli inizi. Figuriamoci poi.

Camminava ora, senza osservare la strada. Arrivato a una svolta, come risvegliato da un sogno, si guardò intorno: appena ai margini del centro storico, la città appariva deserta. Le luci natalizie davano un aspetto surreale alle grigie facciate. Luccicava la pavimentazione di rosse pietre, una bicicletta malamente appoggiata a un portone pareva desolata senza il suo ciclista. Guardò in alto: il cielo si era liberato dalle nubi, appariva di un azzurro intenso. Non luce, non buio. In un angolo lassù, come appesa all’orlo del tetto, si stagliava la luna.

Riprese il cammino. Cosa avrebbe dato, adesso, per sentire il tocco di quella mano sulla sua!

A casa, fatte le comuni operazioni di rientro, si sedette sulla sua poltrona.

Ovunque, intorno, c’erano libri. Riviste ammonticchiate, giornali, faldoni ricoprivano tavolo, divanetti e ogni spazio piano. Il telefono emergeva su un panchetto dagli ultimi numeri di una rivista importante. Il computer, ormai sempre spento, nereggiava in un angolo. Lì era ed era stata la sua vita, con tutti i suoi libri intorno, erano suoi, erano lui. Il disordine era il suo ordine, ed in esso si era mosso sicuro, lì voleva morire. E non avrebbe accettato, mai più, di andare ad alcun evento che avesse come richiamo il suo nome: lo aveva fatto mesi prima, rispondendo all’invito di un circolo culturale in una cittadina non lontana. Dopo che aveva parlato gli si erano affollati intorno sorrisi, persone, penne per autografare. Dalle domande postegli, dai discorsi, aveva capito che nessuno o quasi di quanti lo complimentavano con tanta foga aveva letto un rigo dei suoi libri. E aveva dovuto andare a pranzo, e si era sentito portato in giro come un fenomeno.

Accese la televisione. Ci fu un telegiornale, i soliti terribili drammi, la sensazione di un universale disfarsi. Percorse le tivù commerciali, vagò per alcune minori. Stava per spegnere, quando comparve sullo schermo un viso di giovane uomo, sorridente, accattivante: un astrologo!. Già, a breve, una decina di giorni, l’anno sarebbe finito, occorreva pensare al successivo. Parlava, l’astrologo, diceva: “Per te, Bilancia…per te Scorpione…per te Ariete…”, come se il nome del segno zodiacale fosse quello di una persona. Quando arrivò al suo segno, gli sembrò che facesse una pausa: la telecamera zumò sull’astrologo: forse erano i due bicchieri di spumante che nel frattempo si era bevuti che gli stavano facendo uno scherzo? Gli parve che il viso dell’astrologo, a misura umana, si sporgesse, si sporgesse fuori dallo schermo e che colui, guardandolo con aria sorniona dicesse: “E tu (fece il nome del suo segno), tu farai un bellissimo viaggio, un bellissimo viaggio…in  America!”.

“Alla salute!”, gridò  tracannando il terzo bicchiere di spumante preparato a fianco.

Spense il televisore. Si lasciò andare sullo schienale della poltrona: finalmente, anche questo pomeriggio era finito.

© Giovanna de Luca

Ogni riferimento a possibili circostanze reali è puramente casuale

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