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Il Viaggio

SULLE ORME DI UN PASTORE ERRANTE

GIOIA GENTILE - 18/03/2016

bukharaQuando penso a Bukhara, rivedo le cupole degli antichi mercati coperti, color della sabbia come tutta la città antica. Sì, a Bukhara, nell’Uzbekistan,  il passato ancora si respira, la modernità non è riuscita a snaturarla del tutto. La separano da Samarcanda circa 270 Km di strada, che Google maps, con notevole ottimismo, ritiene percorribili in 3 ore e 42 minuti e che invece richiedono un intero pomeriggio, a causa del fondo autostradale per lungo tratto sconnesso e pieno di buche. Una fatica non sprecata. Bukhara non delude.

La città nuova sembra accogliere e proteggere ciò che resta della sua storia. Il Mausoleo dei Samanidi, il più antico dell’Asia centrale, è un edificio di forma cubica, che sorge isolato in un giardino ben curato; non ha le decorazioni luminose e coloratissime dei monumenti di Samarcanda, ma dalle sue pietre di arenaria emana una spiritualità semplice e profonda. Il complesso Poi Kalon è stupefacente, in particolare il minareto che risale al XII secolo: dello stesso colore ocra che illumina la città vecchia, è completamente rivestito di mattoni disposti in modo da formare figure geometriche; con i suoi 46 metri di altezza domina tutta Bukhara. La fortezza dell’Ark, le cui mura possenti emergono da una vasta piazza dove passeggiano dromedari dal lungo pelo, ci catapulta in un’atmosfera da favola. E la madrasa di Khor Minor, con le quattro torri coperte da cupolette azzurre che si stagliano su un cielo limpidissimo, finisce di riconciliarmi con l’Uzbekistan e mi ripaga della delusione di Samarcanda.

E poi attraversiamo il deserto: un’intera giornata sull’autostrada che si addentra nel Kyzyl Kum (“sabbie rosse”), una distesa prevalentemente stepposa, percorsa, di tanto in tanto, da pastori nomadi con le loro greggi. Chissà se qualcuno ha mai rivolto alla luna un disperato “canto notturno”… A metà percorso ci appare il fiume Amu Darya, che divide il Kyzyl Kum dal Kara Kum (“sabbie nere”) e dal Turkmenistan. Camminiamo per un tratto nella sabbia, effettivamente rossa, conquistati dalla vastità del paesaggio.

Arriviamo a Khiva che è già buio; le deboli luci dell’hotel non riescono ad illuminare l’ambiente circostante e la notte del deserto ci accoglie gelida e senza stelle. Ma quando, la mattina, esco a fumare la prima sigaretta, resto incantata: di fronte a me, imponenti, si snodano le mura  di argilla e paglia della “città interna”, la città antica patrimonio dell’UNESCO. All’improvviso mi sento sospinta indietro nel tempo, all’epoca in cui le carovane percorrevano la via della seta: doveva essere proprio questa la luce, una calda luce rosata, addolcita dalla foschia che sfuma i merli delle possenti torri semicircolari. La poesia, però, svanisce quando la guida ci spiega che questa città era fuori dalla via della seta ed era invece la destinazione finale del commercio degli schiavi.

E comunque, dal punto di vista architettonico, Khiva mi offre tutto ciò che mi aspettavo da Samarcanda. Le moschee, i minareti, le madrase, le botteghe, le comuni abitazioni, le strade, ogni cosa ha il colore dorato della sabbia; le nuove costruzioni adottano i materiali e lo stile di quelle antiche, ma, soprattutto, la città non è un museo, è abitata e viva: i bambini giocano per le strade, gli artigiani lavorano nelle botteghe, una coppia di futuri sposi incrocia il nostro cammino mentre va nella moschea a celebrare il matrimonio. Entriamo in un bar molto primitivo, dove però possiamo scaldarci attorno ad una stufa accesa. Pranziamo in una casa privata i cui abitanti si sono improvvisati ristoratori e, come loro, togliamo le scarpe prima di entrare, per camminare sui morbidi tappeti. Sembra di vivere in un’altra epoca. E addirittura mi ritrovo nel X secolo quando visitiamo la moschea Juma, con le sue 218 colonne di legno intarsiato: ho la sensazione di inoltrarmi in una foresta e provo la stessa emozione che mi lasciò senza parole nella magica Antica Mezquita di Cordoba, di cui questa sembra essere l’antenata.

Nonostante tutto, l’Uzbekistan ha ancora il fascino misterioso dei grandi spazi e delle lontananze che ci fecero sognare l’Asia del “pastore errante”.

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