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Presente storico

VOTO ROSA, 70 ANNI FA

ENZO R. LAFORGIA - 25/03/2016

Maria Montessori

Maria Montessori

«I padroni dei Neri in America dichiarano radicalmente inferiore e incapace d’educazione la razza e perseguitano intanto qualunque s’adoperi a educarla. Da mezzo secolo, i fautori delle famiglie regnanti affermano noi Italiani mal atti alla libertà, e intanto, colle leggi e colla forza brutale d’eserciti assoldati, mantengono chiusa ogni via perché possa da noi vincersi, se pure esistesse, l’ostacolo, come se la tirannide potesse mai essere educazione alla libertà. Or noi tutti fummo e siamo tuttavia rei d’una colpa simile verso la Donna.»

Nel 1860, Giuseppe Mazzini, nei Doveri dell’uomo, paragonava la condizione della donna nella penisola italiana alla condizione degli schiavi afroamericani. Ci sarebbe voluto quasi un secolo e due guerre mondiali, perché le donne conquistassero anche in Italia la piena cittadinanza.

In questi giorni, dovremmo ricordarci che settant’anni fa le donne italiane poterono esercitare per la prima volta il diritto di voto. Dal 17 marzo al 7 aprile 1946, infatti, si votò per eleggere le nuove amministrazioni locali (il fascismo, con la legge del 26 febbraio 1926, aveva abolito il carattere elettivo dei governi locali e aveva istituito la figura del podestà, nominato per regio decreto dal governo centrale). E fu in quella prima prova generale di democrazia che le donne debuttarono come cittadine elettrìci ed eleggibili.

Le donne italiane si erano mobilitate già subito dopo la nascita del Regno d’Italia per rivendicare, tra l’altro, anche il diritto di voto. Ed ogniqualvolta il Parlamento aveva messo mano alla legge elettorale (nel 1882 e nel 1912), le donne avevano reclamato a gran voce che anche a loro fossero concessi i diritti politici. I contrari a tale riconoscimento furono spesso trasversali ad ogni formazione politica. Resta celebre il confronto su questo tema tra Anna Kuliscioff e il suo compagno di vita, Filippo Turati. I due, nella primavera del 1910, resero pubbliche le rispettive posizioni dalle pagine del giornale «Critica sociale» e di «polemica in famiglia» parlò esplicitamente la Kuliscioff (è superfluo dire che il “maschio” Turati aveva precedentemente dichiarato sull’«Avanti!» che, pur essendo convinto che nel tempo alle donne sarebbe stato riconosciuto il diritto di voto, non riteneva tuttavia opportuno riconoscere tale diritto nell’immediato).

Le donne italiane, quindi, poterono votare per la prima volta nella primavera del 1946.

Ma… forse non è del tutto esatto.

Già nel 1906, infatti, dieci donne marchigiane si videro riconosciuto, per qualche mese, il diritto di voto.

Il 6 dicembre del 1905, la Camera dei deputati discusse una proposta di legge firmata da tutti i componenti del gruppo parlamentare repubblicano. Questa, all’articolo 1, affermava: «Sono abrogati i paragrafi 3° e 4° dell’articolo 1 della legge elettorale politica, testo unico 28 marzo 1895, n. 83. Dal voto non sono escluse le donne: né gli italiani delle terre irredente». A seguito del dibattito parlamentare, il 26 febbraio, sul giornale romano «La Vita», Maria Montessori (1870-1952) pubblicò un Proclama alle donne italiane, a nome della Società «Pensiero e Azione». Dopo essersi laureata in medicina (fu una delle prime donne in Italia a conseguire tale titolo) e dopo aver condotto ricerche presso la clinica psichiatrica dell’Università di Roma, Maria Montessori si era impegnata nella tutela dei bambini «deficienti» o «anormali» (questo era il linguaggio dell’epoca). Nel 1906, fu invitata ad organizzare un asilo infantile per i figli degli operai nel quartiere S. Lorenzo di Roma. Iniziò da quel momento l’esperienza educativa montessoriana, destinata ad avere ampia diffusione in tutto il mondo.

Maria Montessori aveva già preso parte attivamente alle battaglie femministe ed il suo Proclama scaturiva dalla constatazione che la legge non vietava in modo esplicito alle donne l’iscrizione alle liste elettorali: «La legge italiana è la più equa nel mondo civile e la più umanitaria: fatele onore. Essa non impedì mai alle donne l’accesso nelle Università, il servizio medico negli Ospedali – cose che furono a fatica conquistate nelle altre nazioni europee – non impedisce nemmeno alle donne d’essere elettrici politiche». Aveva ragione. L’articolo 24 dello Statuto albertino stabiliva, infatti, che «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge» e che «Tutti godono egualmente i diritti civili e politici e sono ammessi alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle leggi».

Il testo della Montessori fu affisso sui muri della capitale la notte del 3 marzo. Fu quindi ripreso un po’ dappertutto in Italia e numerose donne richiesero l’iscrizione alle liste elettorali. Tra queste, anche dieci donne marchigiane, tutte maestre elementari, tra i venti e i cinquant’anni. In merito a quest’ultima iniziativa dovette pronunciarsi il presidente della Corte d’appello di Ancona, Lodovico Mortara. Il collegio giudicante presieduto da Mortara, il 25 luglio di quello stesso anno si espresse a favore dell’iniziativa delle maestre marchigiane, proprio sulla base di quell’articolo dello Statuto albertino, che abbiamo ricordato.

L’illusione delle dieci maestre durò poco. Il 15 dicembre successivo, la Corte di Cassazione annullò la decisione del tribunale di Ancona: l’esclusione delle donne era un «presupposto indispensabile» della legge elettorale. Insomma, le donne non potevano votare… a prescindere, verrebbe da dire.

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