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Società

PERDONO: CONCEDERLO, NON CHIEDERLO

GIOIA GENTILE - 29/04/2016

La visita di Kerry a Hiroshima

La visita di Kerry a Hiroshima

“Kerry non chiede perdono per le vittime di Hiroshima!”. Così annunciavano scandalizzati i telegiornali, un paio di settimane fa, in occasione della visita del segretario di Stato USA in Giappone, nell’ambito del G7 dei ministri degli esteri. E qualcuno aggiungeva “lo ha fatto persino il Papa!”. Poiché non mi scandalizzo facilmente e l’omologazione del pensiero mi provoca l’orticaria, ho cominciato a riflettere.

Da un po’ di tempo a questa parte sembra che il perdono sia diventato di moda, tanto che a volte la prima domanda che un intervistatore fa al familiare di una vittima di omicidio è: “Perdona l’assassino?”. Domanda idiota, quasi quanto quella che alcuni rivolgono al superstite di un terremoto appena tirato fuori dalle macerie: ”Che cosa ha provato?”. Credo che solo lo smarrimento impedisca ai malcapitati di reagire violentemente.

La questione fondamentale, su cui nessuno sembra soffermarsi, è: che cos’è il perdono e che senso ha chiederlo e concederlo? Se significa annullamento della colpa, è chiaro che è precluso ai comuni mortali: bisognerebbe avere il dominio del tempo per poter tornare indietro e modificare il passato. Se invece significa cancellare la pena, entriamo nel vasto territorio delle possibilità, che coinvolgono problemi teologici, etici, giuridici, politici, sociali e psicologici che sarebbe troppo complesso affrontare qui e per i quali, comunque, non ho le competenze necessarie.

Mi sono limitata quindi al primo aspetto del problema: se non è possibile annullare l’errore commesso, che cosa si aspetta chi chiede perdono e, nel caso specifico, il rappresentante di uno Stato che lo chiede per gli errori commessi dai suoi predecessori? Che si faccia finta che nulla sia accaduto? Evidentemente no. Non si potrebbero dimenticare le centinaia di migliaia di persone uccise dalle bombe atomiche, i milioni sterminati nei campi di concentramento tedeschi o in quelli sovietici (ma tanto questi ultimi il perdono non lo hanno chiesto e dunque per loro il problema non si pone). Non si potrebbero dimenticare i genocidi di cui è costellata la storia umana. E non sarebbe giusto farlo: il ricordo dovrebbe servire ad evitare che fatti del genere si ripetano, l’orrore dovrebbe metterci al riparo dall’errore.

Oppure, chiedendo perdono non si intende il termine nel suo significato letterale, ma si vuol dire “abbiamo preso coscienza del male commesso, soffriamo per ciò che è stato fatto, chiediamo che si abbandoni l’odio, che si abbia compassione per la nostra sofferenza”? Ma la sofferenza – almeno quella! – è il giusto castigo dei responsabili, e se il perdono è qualcosa che si dà e si riceve, come dice la parola stessa, per dono, non ha senso chiederlo.

Mi è parso, quindi, corretto e dignitoso il comportamento di John Kerry, anche se credo – ma posso solo supporlo – che le sue motivazioni non siano le mie. Si è recato al memoriale delle vittime di Hiroshima assieme agli altri ministri degli esteri e vi ha deposto una corona di fiori. Poi ha scritto: “Questo ci ricorda con forza e durezza che abbiamo non solo l’obbligo di porre fine alla minaccia delle armi nucleari, ma anche che dobbiamo fare di tutto per evitare la guerra. Questo memoriale ci obbliga tutti a raddoppiare gli sforzi per cambiare il mondo, trovare la pace e costruire un futuro tanto desiderato ovunque per i nostri cittadini.” Non ha ricordato un passato che non si può cambiare, ma ha guardato al futuro con un auspicio e una speranza. Forse con un progetto.

E deponendo quella corona di fiori si è rivolto con la stessa pietas a vincitori e vinti.

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