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Cultura

PAROLA E SILENZIO

SABRINA NAREZZI - 29/04/2016

pattiParola e silenzio: quale sia il loro reciproco scambio, come scaturisca la determinazione dell’uno dall’altra e viceversa, come entri ciascuno dei due in relazione col mondo. Tutte questioni che appaiono scontate nella loro immaginifica evidenza. Invece non è proprio così immediatamente eludibile dal pensiero questo impalpabile ma deciso e decisivo rapporto.

Quest’ultimo è stato oggetto di un seminario organizzato a Villa Toeplitz dall’Università degli Studi dell’Insubria e coordinato da Fabio Minazzi, per il quale è opportuno ricordare come “la prassi della filosofia sia nata attraverso il dialogo. Da questo punto di vista siamo tutti nipotini di Socrate”.

A recuperare il senso del silenzio, il libro Itinerari di silenzi di Adriano Patti, magistrato della Corte di Cassazione di Roma. “Parlare del silenzio appare come una contraddizione in sé ed è pure un po’ controcorrente – spiega l’autore –. Soprattutto i giovani fanno fatica a vivere la dimensione del silenzio, ma spesso anche gli adulti. Del resto siamo tutti dotati di protesi elettroniche che ci seguono continuamente. Fondamentalmente avvertiamo tutti l’esigenza di rimanere in qualche modo legati, sia pure virtualmente, per evitare di rimanere soli”.

 Insomma, ci immergeremmo in continuazione in un mare incessante di parole per paura della solitudine. “Eppure il silenzio può aiutare a ritrovare il senso delle cose e delle circostanze”. Il silenzio come via per approdare al senso, dunque. “Ma il silenzio esige uno spazio, un tempo e, soprattutto, una decisione. È una dimensione che non si realizza spontaneamente”.

Inoltre ricavarsi uno spazio di silenzio può servire per recuperare un orientamento della vita che ci conduca ad ascoltare. “Il silenzio non è un ripiegamento sterile su se stessi – prosegue Patti –, ma, anzi, ci apre all’ascolto di quello che è veramente importante. Induce alla maturazione di uno sguardo e, sorprendentemente, all’apertura verso l’altro e alla riscoperta della parola”.

Il silenzio conduce, in definitiva, alla parola. “La parola è così abusata, maltrattata, usata in modo non appropriato. Eppure essa è un bene prezioso, perché con la parola comunichiamo, gettiamo dei ponti, incontriamo l’altro. Ma, per fare tutto questo, è necessario che ci ritagliamo qualche spazio di silenzio”.

Il silenzio è dunque una dimensione istitutiva della maturazione di una persona e ha pure una funzione sociale. “Il silenzio è fondamentale per lasciare sedimentare nel nostro animo ciò che l’altro suscita in noi e per riuscire quindi a dar luogo ad un risposta più appropriata o a cogliere il perché l’altro ci abbia sollecitato in questo modo”. Il silenzio, da questo punto di vista, è anche strumento efficace per cambiare prospettiva nel valutare le cose, i fatti, le circostanze. “Il silenzio non è autoripiegamento intimistico, ma attenzione a quello che l’altro mi vuole dire – conclude il magistrato –. E l’altro ci comunica non la parola che utilizza, ma ci comunica un’emozione, un’intenzione, uno sguardo che attende solo di essere accolto. Il silenzio è uno spazio esistenziale di verità su di noi e sugli altri e può essere, anzi, deve essere un buon compagno di vita”.

 La seconda parte della conferenza – trainata dal concetto di storicità del silenzio e da quello di silenzio inteso come “contrario del silenzio imposto”, curata da Fabio Minazzi – è stata dedicata da Florinda Cambria, docente presso l’Università dell’Insubria, a Elsa Morante: la scrittura come sortilegio.

“Nell’opera della Morante – spiega Cambria – ci sono due temi ricorrenti: l’innocenza e la parola. L’innocenza è da intendersi come la situazione precedente alla parola, è il luogo del silenzio, di un’esperienza di immediata fusione con il mondo. È il luogo degli animali, degli angeli, dei ragazzini …”. Chi entra nella parola perde questo mondo di innocenza. “La parola è la prospettiva di un mondo che ha perduto per sempre la sua purezza, nella sua assolutezza e interezza”. E l’arte, intesa soprattutto come arte poetica, “non è altro che il contrario della disintegrazione, perché la sua funzione è proprio quella di impedire la disintegrazione della coscienza umana nel suo alienante, logorante, quotidiano uso col mondo. L’arte, insomma, ha il compito di restituire l’integrità del reale”.

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