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Cultura

OCCHI DIVERSI SULLA CITTÀ

LUISA NEGRI - 13/05/2016

Obbiettivo su Varese per i duecento anni dalla sua elezione a città.

L’occhio che guarda è quello della Commissione eventi architetti composta da Riccardo Blumer, Elena Brusa Pasqué, Ileana Moretti, Carla Moretti, Enzo Cantoni, Fabio Beverina e Patrizia Buzzi.

Sono loro gli organizzatori di VA’rese_microvalorizzazione del quotidiano rassegna fotografica – legata al Comitato Varese 200 – che si propone di smuovere qualcuno a fare qualcosa (Va’, dal milanese vardare e rese, dall’inglese antico to rese, scuotere). Parte di un più ampio progetto, curata da Marco Zanini, Nicola Domaneschi e Marco Verdi, la mostra è visitabile nello Spazio Arte di IFC srl, agenzia di Unipol Sai, che da decenni ospita, nelle sale degli uffici di Piazza Monte Grappa, artisti ed eventi legati al territorio.

È senza dubbio una scelta intelligente quella di aprire all’arte coniugando mondo e spazio professionale con l’interesse culturale. Con il beneficio del libero accesso ai visitatori esterni di quanto è in mostra e la fruizione della rassegna da parte di chi ci lavora.

Un esempio, insomma, da imitare, se è vero che il petrolio del nostro magnifico Paese, noi ci crediamo davvero, e in tanti cominciano ad accorgersene è – deve essere – la cultura.

Varese dunque svela, grazie a questa proposta, i suoi angoli nascosti, offre recondite armonie del suo bello e del brutto, non nasconde le magagne, tante, e pone interrogativi, molti. Insomma, l’occhio che guarda diventa anche il nostro. Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi è la citazione ripresa da Marcel Proust. E questo vi accadrà, di sicuro accade, dopo aver visitato la mostra. Perché lo scopo del progetto, nel suo insieme, è di ricominciare a “sfogliare” la città dopo aver osservato le foto: morsi di storia di ieri e di oggi, con angoli conosciuti o davvero mai visti, da rivedere o scoprire per la prima volta. È un bell’esercizio, e il progetto, che sarà sempre in fieri con aggiornamento costante di nuove immagini, sino alla scadenza, cioè a fine dicembre, promette di essere un po’ come una caccia al tesoro, costellata a latere, anche di eventi musicali, teatrali, sportivi in luoghi scelti per l’occasione.

La nostra città, quella che amiamo, la potremo vedere qui con occhi diversi, come indossando gli occhiali in 3D, che danno il senso della profondità. E ci si può divertire, interagendo con l’Iphone, a indagare dove sono i posti indicati dalla mostra o, viceversa, indicare quelli che si ritengono da indagare.

Brusa Pasqué, anima dell’evento, dice che in realtà c’è una mostra nella mostra. Perché nella sala grande si trova anche la grande mappa di Varese, che tutto contiene e racconta, con anche le proprietà di Libera sequestrate alla mafia: ad esempio in via Tonale, via Monte Golico, via Avegno. Poi destinate alla riabilitazione con funzioni sociali. A questo proposito il ricavato delle foto in mostra, acquistabili a rassegna terminata, andrà proprio a Libera.

Arte della fotografia, impegno sociale e culturale si danno dunque la mano in questa particolarissima rassegna che ci conduce dal passato all’oggi, dal bello al brutto, dal male al bene.

Curiosa, per chi ancora non lo avesse visitato, la foto con vista sul lungo tunnel del rifugio antiaereo varesino, che dagli edifici di recente recuperati, visibili di fronte all’ingresso del parcheggio di via San Francesco d’Assisi, risale fino a villa Mirabello. Fu luogo di salvezza per tanti varesini durante i bombardamenti degli anni Quaranta, che fecero anche a Varese numerose vittime. Un momento di storia drammatico per chi lo ricorda ancora, ma anche per i figli del dopoguerra, che lo hanno vissuto nella voce dei padri.

Citiamo un altro luogo fotografato e suggestivo per il difficile accesso: l’interno buio della torre di Piazza Monte Grappa, nella “nostra” torre. Perché sarà “fascista”, ma quell’architettura di pietra grigia squadrata che s’allunga là in alto nel blu del cielo e vi spicca nitida, se si fa il piacevole esercizio di alzare gli occhi fin lassù, nelle giornate di bel tempo, e che abbiamo visto fin da bambini, vicino alla spumeggiante fontana, nella pulizia dell’insieme della piazza, nella solidità squadrata dell’incombente mole, ha una sua innegabile nobiltà. Creata per soverchiare in altezza e gareggiare con la forma più “morbida” del bel campanile, per assoggettare lo spirituale al potere temporale, ne è diventata sorella agli occhi di tutti: due simboli, diversi, ma entrambi entrati nel cuore. Segno che chi usa matita e compasso, seppure in tempi di regime, se è bravo riesce comunque a operare bene.

La piazza, da quando è stata fatta, è il salotto buono di Varese. E tale rimane ancora oggi. Il problema è di rispettarla, in quanto luogo scelto di accoglienza per chi arriva in città. Di mantenerla e conservarla pulita e ben arredata, di amarla davvero, magari eliminando anche l’ingombrante gabbiotto, l’intruso manufatto a vetri che rompe la prospettiva verso la Camera di Commercio, guardando dalla parte opposta. Ci sono foto degli anni Trenta che ci presentano una piazza Monte Grappa grande, ordinata e pulita, senza il nonsense dell’abete, con caffè eleganti, fioriere e tavolini: niente sbavature, niente confusione, niente sovrapposizioni inutili. E NOI ? Magari potremmo regalare un po’ di colore ai balconi delle solide case, a cominciare dall’edificio della Camera di Commercio, per ovviare all’austerità della facciata con la gentilezza dei fiori. Potremmo eliminare anche i panettoni, pericolosi e orridi che delimitano la piazza davanti all’anello del traffico dove i bambini sono tentati troppo spesso di scappare di mano finendo tra le macchine. Al loro posto, a fine di prevenzione, potrebbe andarci un divisorio in ferro battuto leggero, lo stile da scegliere nel più opportuno dei modi, che faccia da barriera ai bambini e sia visibile la notte ai guidatori.

Ma, già che ci siamo, togliamo definitivamente anche gli orridi gonfiabili che compaiono di quando in quando, come ormai avviene purtroppo ovunque, nel nostro salotto buono. Spostiamo definitivamente altrove, per esempio in piazza della Repubblica, le bancarelle che rovinano la pavimentazione scelta da Morandini. Chiediamo anche ai giovani di evitare di imbrattarla con le gomme da masticare, glielo si potrà pure chiedere, o no?

Sogni modesti ma forse opportuni. Che non sfigurano accanto a più alti pensieri che ci fanno rivedere, in altre foto della mostra, la storia di Varese: dal Cippo di Kosciuszko di Villa Recalcati Morosini, che custodiva il cuore del Garibaldi polacco, alla povera ex caserma di via Magenta, troppo a lungo dimenticata e oggi rabberciata, in zona Cesarini, col filo del rammendo, alla palestra anche questa “fascistissima”, ma tanto utile a generazioni di studenti e sportivi, oggi in via XXV Aprile, chiamata un tempo, prima della débacle bellica, Viale delle Vittorie E ancora: la chiesa di Massimiliano Kolbe, interessante davvero ma umiliata in un contesto urbanistico venuto su a casaccio lungo Viale Aguggiari, il Politeama ricostruito, certo meno bello di un tempo, il belvedere di Villa Toeplitz, la reggia varesina in cui donna Edvige amava passeggiare col marito banchiere. Prima di trasferirsi, pochi lo sanno, in una sempre deliziosa ma più piccola villa che oggi guarda sul Viale Europa, situata in fondo alla via Limido. Una strada piena di ricordi e di ville d’inizio novecento, a non molti passi dalla casa di famiglia di Guido Morselli, davanti alla dimora minimalista in cui lo scrittore chiuse la sua vita. Edvige transitava spesso per la via Limido, l’estate vestiva di bianco, riparandosi sotto un piccolo parasole di candido pizzo. E a quanti l’incontravano porgeva il suo sommesso, garbato saluto: “Riverisco”.

Orari apertura mostra (ingresso libero): lunedì-venerdì 9-12 e 15-17.30

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