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Opinioni

INSEGNARE A PENSARE

ROMOLO VITELLI - 03/02/2012

L’aneddoto che racconterò questa volta ha per protagonista una simpatica allieva del liceo scientifico di Gavirate. Restituito ai ruoli metropolitani di provenienza, dopo la stimolante parentesi educativa alla Scuola Europea di Varese, passai ad insegnare storia e filosofia al liceo scientifico di Gavirate. Avevo avuto le mie classi d’insegnamento alle quali, non certo senza fatica, cercavo di far comprendere, come faceva Kant nei suoi semestri all’Università di Koenisberg, la differenza che passava tra l’insegnare pensieri e l’insegnare a pensare e l’importanza che rivestiva il dubbio metodico nello studio della filosofia e nella ricerca in genere della verità. Ma mi ero accorto subito, dalle prime battute, che i ragazzi erano per lo più abituati a ripetere passivamente a memoria ciò che avevano studiato sul testo ed erano poco propensi ad assumere ruoli attivi ed autonomi nelle conversazioni, nelle ricerche e nei lavori di gruppo. L’approccio alle questioni, quando venivano poste, era un approccio dogmatico e non critico; e il dubbio, la modestia e l’umiltà non erano di casa in quella sezione. Gli anni di studio precedenti non avevano scalfito granitiche certezze, né l’arroganza tipica di chi “ha già compreso tutto e prima degli altri”.

Così incominciai pian piano a svolgere le attività didattiche propedeutiche alla preparazione di una corretta programmazione educativa, tentando parimenti di demolire, nelle mia prima parte, quella destruens, ogni forma di arroganza e supponenza e prepararli all’ascolto, alla riflessione. Avevo notato che in più occasioni più o meno sommessamente, qualcuno borbottava: “Ma nelle altre sezioni stanno più avanti di noi, perché stiamo perdendo tutto questo tempo?”

Così di tanto in tanto ne approfittavo per far comprendere che quello che per loro era una perdita di tempo non era altro che l’applicazione pratica di uno dei tanti principi educativi di Rousseau, quello cioè che suggerisce ch: “a scuola bisogna perdere tempo per guadagnarne”. Dopo aver dedicato ancora qualche lezione a definire meglio la prima parte della mia programmazione educativa, ritenni che fosse giunto i momento di operare una prima verifica scritta per comprendere a che punto fosse il processo di assimilazione e di crescita della scolaresca. Assegnai, così la seguente traccia ad hoc da svolgere: “Scrivi una lettera ad un amico che non ha mai studiato filosofia e raccontagli che hai cambiato l’insegnante di questa materia; dopo avergli spiegato a che serve e se serve la filosofia, cerca di parlargli delle prime emozioni (ansie, paure, gioie, aspettative) suscitate in te dall’impatto con un nuovo professore e con nuovi metodi d’insegnamento. Nella lettera cerca di analizzare le molteplici attività didattiche sinora svolte, dando di esse una lettura d’insieme serena ed oggettiva e dicendo se, e in che senso, questa nuova esperienza ti ha aiutato a maturare, cioè ad essere “più consapevole di te e del mondo”. In sostanza devi cercare di ripercorrere criticamente i momenti essenziali di questa tua prima fase di studio, in questo primo scorcio di anno scolastico, dal nostro primo incontro sino a questa verifica, cercando di riflettere sulle tue condizioni iniziali di partenza (lo “studente in entrata”), mettendo in luce i traguardi culturali provvisori sino ad oggi raggiunti (“studenti in uscita”).

Prova anche ad immaginare come vorresti che l’insegnamento della filosofia si sviluppasse nella restante parte dell’anno scolastico. Infine nella lettera parla al tuo amico di un filosofo che ti ha particolarmente interessato. Dopo averlo informato chiaramente, semplicemente e per sommi capi sui temi più importanti affrontati dal pensatore in questione digli perché ti è piaciuto e quali aspetti della sua ricerca ti hanno interessato ed aiutato a comprendere la vita di tutti i giorni. (“Chissà che la lettura di questa tua lettera non spinga il tuo amico a prendere in mano qualche libro di filosofi, magari ‘II mondo di Sofia’ )”.

Come si può comprendere la traccia del tema doveva indurre gli studenti a riflettere e a prendere coscienza dell’attività sino ad allora svolta e a dare a me le informazioni necessarie sulla fase di maturazione conseguita dagli allievi, in modo da fornirmi tutti gli elementi utili per impostare correttamente l’iter programmatico, per la seconda fase, quella construens, introducendo eventuali correzioni e/o integrazioni nella prassi didattica quotidiana.

Lo stralcio di tema svolto, che riporto qui di seguito, restituisce in modo veritiero il travaglio e le inquietudini di un’allieva alle prese con nuovi metodi e un nuovo professore.

“Cara Polina, a settembre ho iniziato la scuola, e rispetto all’anno scorso ho cambiato anche qualche professore, tra i quali quello di filosofia. Quest’anno è venuto da noi un professore che dalla prima lezione fino a questo momento continua a stupirmi e a lasciarmi meravigliata: il prof. Vitelli.

La prima volta che è entrato in classe ha detto una frase che mi ha lasciato perplessa e che inizialmente mi ha messo sull’attenti, in posizione di difesa: “Io voglio cambiarvi!” . Non riuscivo a capire perché mai volesse cambiarci o anche solo cosa ci fosse di sbagliato in noi o chi fosse lui per pretendere di poterci cambiare. Con questo non voglio dire che la mia prima impressione è stata negativa, però non è stata neanche positiva, ero solo stupita: nessun professore aveva mai osato fare una affermazione simile! Allora nei primi giorni il mio atteggiamento è stato di autodifesa: era quasi orgoglio perché non volevo essere cambiata da lui, non capivo neanche cosa ci fosse di sbagliato in me; sì, magari avrei dovuto studiare un po’ di più, presentarmi più preparata alle interrogazioni per prendere voti più alti, ma mi sembrava che lui non riuscisse a cambiare, ad aumentare la quantità del tempo che passavo sui libri, perché continuava a ripetere (e lo continua a ripetere anche adesso) che voleva “renderci più consapevoli di noi stessi e del mondo che ci circondava” e che questa era la vera filosofia.

Però penso che lui avesse immaginato che io, ei miei compagni, avremmo assunto una posizione di difesa, così ha cominciato piano, piano a demolire il muro che io volevo frapporre in mezzo: ci portava delle favolette per bambini e io non riuscivo a capire nemmeno il senso, ci fotocopiava articoli di giornali di attualità ed io ero totalmente “non consapevole” di quello che accadeva nel mondo, non sapevo che pesci prendere. E pian, piano compresi che aveva ragione lui, che “non ero consapevole né di me né del mondo che mi circondava,” che avevo bisogno di essere cambiata: con quelle prime fotocopie lui aveva demolito il mio orgoglio e la mia superbia”.

Giudizio dell’insegnante: “L’elaborato restituisce il travaglio e lo stato d’animo della studentessa nell’impatto con nuovi metodi e un nuovo professore e mostra chiaramente l’emergere di un’ onesta e sincera forma di coscienza autocritica”.

Però se si vuol comprendere a pieno il senso e il perché dello stupore e della metamorfosi della studentessa di fronte ai miei nuovi metodi d’insegnamento e alla mia affermazione: “sono venuto a cambiarvi,” è necessario dare sulla classe alcuni ulteriori elementi informativi. Sino al mio incontro la classe nella quale la ragazza era inserita aveva avuto un approccio alle discipline alle materie, storia e filosofia comprese, fine a se stesse e non come risorse e mezzi per cambiare e far maturare gli studenti. Per lei e per molti altri educare non significava, mutare, cambiare, crescere, ma riempirsi la testa di nozioni a memoria. Il cambiamento per lei poteva significare al massimo, come ha scritto nel compito: “aumentare la quantità del tempo che passavo sui libri”. Quindi per lei un buon professore in sostanza era quello che si poneva non come mediatore e facilitatore dell’apprendimento, ma come uno che faceva scervellare per una buona dose di tempo l’allieva a casa su di un testo che lui non le aveva chiarito la mattina a scuola. E né del resto aveva sentito parlare dell’affermazione Di Plutarco, tratto da “ L’Arte di ascoltare”, che propongo qui di seguito “…Non è sbagliato quello che dicono alcuni, e cioè che se si vuol versare qualcosa di buono nei giovani bisogna prima sgonfiarli più di quanto non si faccia con l’aria contenuta negli otri, di ogni presunzione e albagia, perché altrimenti, pieni come sono di alterigia e di boria, non riuscirebbero ad accogliere nulla”. Così rivolgendomi alla scolaresca dissi: “Cari ragazzi sono venuto a cambiarvi”. Naturalmente non avevo fatto nient’altro che annunciare chiaramente e in modo un po’ provocatorio il mio proposito educativo di tradurre sul piano pratico l’ammonimento di plutarchiana memoria, sopra riportato, e dare attuazione pratica a quella che a me pare la finalità più autentica e vera dell’educare contenuta nell’ affermazione del pedagogista americano Mager che riporto qui di seguito:

“L’istruzione è efficace nella misura in cui riesce a cambiare gli studenti nella direzione voluta e non in una direzione non voluta”. Se l’istruzione non riesce a cambiare lo studente non possiede né efficacia né potere”. (R. F. Mager, “Gli Obiettivi didattici”).

L’allieva conseguì la maturità scientifica con buoni risultati. Un giorno, quando già mi ero trasferito da alcuni anni al “Cairoli,” accendendo la tv per seguire un tg, la mia attenzione si concentrò su di un viso che mi parve subito famigliare: era lei, proprio lei, la nostra allieva che “non voleva essere cambiata” al meeting di Rimini di Comunione e Liberazione, mentre da volontaria si adoperava per la buona riuscita della manifestazione.

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