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Cultura

PESSIMISMO LEOPARDIANO

FELICE MAGNANI - 20/05/2016

biblioteca-leopardi

La biblioteca di casa Leopardi a Recanati

Senza nulla togliere alla dolcezza dei declivi marchigiani, alla gentile armonia di un paesaggio tra i meglio conservati del nostro paese, non si può negare che vivere a Recanati deve essere stato un piacere e una condanna per chi, come il genio creativo di Leopardi volava altissimo. Un genio nato, che si è definito nella biblioteca di un padre-conte diviso tra la cultura letteraria e il desiderio di vivere il piacere profano dell’amministrazione di un patrimonio eccellente.

Monaldo uomo colto, raffinato, amato e stimato nel cenacolo della cultura italica, ma forse annoiato dalle ristrettezze di un vincolo famigliare viziato dalle regole e dai dogmi della sua illustre sposa, quella Adelaide dei Marchesi Antici, donna temprata e solerte, cultrice di un patrimonio messo sistematicamente in crisi dall’inefficiente pragmatismo maritale.

Una famiglia aristocratica e colta quella di Giacomo, ma chiusa in se stessa, tra le pagine un po’ ingiallite dei libri, i retaggi, le strettoie e le ipocrisie di un mondo appoggiato sulle corde di una vita rustica e piuttosto grezza, dominata dalle feste di paese, dagli sguardi furtivi di contadini e piccoli artigiani, dall’incedere impettito di donzellette agghindate a festa, dal pettegolezzo di comari e di giovani aitanti più versati nell’economia agreste che nella silenziosa ricerca di una vita culturale articolata e profonda. Una famiglia dominata da varie forme di perbenismo, dove capita spesso di incorrere nella severità inquisitoria di una madre ingessata nei suoi valori borghesi. Un’educazione fondata sui caratteri di un cattolicesimo manieristico, molto attento e un po’ beghino, dove le negazioni superano di gran lunga le affermazioni e dove spesso per trovare il bene individuale bisogna fuggire lontano, dove l’orizzonte non ha più il sapore di un limite e dove finalmente la cultura trova i suoi contraenti migliori: uomini, donne, città, monumenti, analisi e discussioni che riaprono all’improvviso la porta di un mondo prematuramente scomparso.

Chi passa per Recanati anche oggi, entrando in casa Leopardi non può non provare ammirazione per l’aristocratica bellezza del palazzo, ma non può neppure non provare un senso di soffocamento paralizzante tra quelle pareti tappezzate di libri che convergono sulla curiosità del turista ad indicare un destino chiuso e drammatico, dove le pagine si prendono una qualche rivincita sulla ripetitività di una vita legata alle consuetudini, ai riti, ai pregiudizi, alle piccole e grandi ipocrisie di un mondo che il poeta non sente suo.

Da una parte le origini, la vita famigliare con i fratelli, le condivisioni, i giochi, gli studi matti e disperatissimi, il sogno e il desiderio, il tuffo e la fuga in una natura sempre più evocata, travolta, inseguita, inquisita, rea di un’illusoria epopea di agreste felicità. È un Leopardi incerto, insicuro, inquieto, incapace di aderire, nervoso, che cerca disperatamente la realtà più adeguata, nella quale appoggiare il suo desiderio di amore, un Leopardi che vive sospeso nella illusoria convinzione di trovare finalmente la risposta giusta ai tanti perché della vita, senza mai approdare a un porto di quiete, a un volto disteso che possa riempire il suo vuoto, a un sorriso che sia di smagata speranza.

Non si può non provare tenerezza nei confronti di Giacomino, di fronte alla sua intelligenza analitica, al suo dinamismo poetico, ai suoi slanci, ai suoi sogni, alle sue speranze, alle sue vendette, alle sue delusioni, ai suoi sentimenti spesso contraddittori, sempre puntati al conflitto interiore con una natura per niente riconoscente anzi, intollerante e violenta, senza pietà alcuna nei confronti di un giovane che si apre alla vita e che è già piegato su se stesso a piangere il suo dolore. Giacomo Leopardi, il poeta più amato dalle giovani generazioni italiche, ci ha fatto provare sentimenti indiscussi, ci ha fatto sentire i sussulti di un tempo dominato da emozioni profonde, capaci di gettare il cuore alle ortiche oppure di farlo battere all’impazzata, come se dovesse dominare le gioie del mondo, anche quelle più umane, legate in parte alla pura bellezza e alle sue forme, ai suoi sguardi, alla sua capacità di trasferire ogni impronta umana in un mondo di poeti e di fate, di angeli e di luci.

Giacomo è in fondo una parte di noi, delle nostre inquietudini terrene, delle nostre incongruenze, di quello che vorremmo essere e di quello che siamo, della nostra infinita debolezza. Lo abbiamo amato perché in molti casi lo abbiamo odiato, pensavamo di poter fare a meno di lui, delle sue pie illusioni, delle sue nevrosi, delle sue umane antipatie, delle sue intemperanze, del suo essere inquisitore spesso, per poi cadere miseramente sotto il peso dei sentimenti umani e diventarne schiavo.

In Giacomo abbiamo conosciuto la nostra natura, mai doma, sempre pencolante tra il bene e il male, divisa tra la negazione del presente e una vaga stagione dell’ilarità e dell’allegria, abbiamo imparato ad amare anche i nostri sentimenti più comuni e contrastanti, ci siamo accorti che in fondo un po’ di Giacomo è in ognuno di noi, nel ricercare una fuga in avanti pensando di dare un significato più vero e profondo alla nostra terrena curiosità.

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