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Cultura

DÀMAN UN ZICCH

LUISA OPRANDI - 03/02/2012

Quando, qualche anno fa durante una cena tra amici, Yapo Yapi, ivoriano di origine e varesino di adozione, desiderando che gli fosse servito un po’ di gustoso cous cous mi disse “Dàman un zicch…” restai piacevolmente sorpresa dalla sua familiarità con il nostro vernacolo. Ma quando, pensando gliene avessimo dato troppo poco, per chiederne dell’altro con disinvoltura aggiunse. “…anzi, dàman düü zicch…” scoppiai a ridere. Io ridevo e lui, guardandomi un po’ allibito, si chiedeva perché mi divertissi così tanto. In fondo la logica era ferrea: se “un zicch” significa un po’, “düü zicch” voleva ovviamente dire raddoppiare la misera dose che gli era stata ammannita. E lì, attorno a un tavolo dove i cibi africani e la formaggella del luinese si mischiavano armonicamente, capii che davvero le parole, i linguaggi hanno la stessa facilità di positiva contaminazione. Possono e sanno unire, creare legami, diventare nuove parole, ponti tra le culture. Yapo e la moglie, anch’essa straniera, hanno conosciuto e appreso la nostra lingua dialettale, sia per la familiarità quotidiana con un anziano varesino, sia per la straordinaria disponibilità mentale a mettersi in relazione con la storia, le tradizioni, la cultura della nostra gente. E, al tempo stesso, hanno trovato altrettanta disponibilità in molti varesini a condividere la bellezza delle loro storie e culture.

Ciò ha consentito, nel tempo, quella amalgama inclusiva che, sapientemente e naturalmente, ha segnato i passi della nuova integrazione cui la storia ci chiama. Ma già, quando ero ragazza, l’imbianchino che ridipingeva le pareti della casa in cui abitavo coi miei genitori chiacchierava tranquillamente con i miei e con i vicini in dialetto, con una pronuncia perfetta e assolutamente scorrevole. Ho scoperto solo tempo dopo che era di origini siciliane e che, avendo sposato una varesina e trovandosi a lavorare nelle case delle nostre zone, aveva assimilato con grande spontaneità anche la lingua, che parlava con una padronanza invidiabile. Persino un bidello, impiegato nella scuola di via Brunico dove ancora insegno, amava rivolgersi a me e ad altri colleghi nel nostro dialetto, perché gli veniva più spontaneo dell’italiano, benché fosse pugliese. E, ancora oggi, quando ritorna da quella regione del sud, nella quale è andato a vivere dopo la pensione, appena mi vede : “ Mè la va? Te sté ben? E la tò mama?” mi chiede.

È bello pensare che il dialetto non sia solo la lingua conosciuta dagli autoctoni, utilizzata come fosse una sorta di “fortino linguistico” dentro il quale arroccare la distinzione di una appartenenza, ma che assuma il ruolo importante di tramite tra le distanze geografiche e linguistiche d’origine. Così come è bello pensare che il dialetto sia stato, per la sua forza comunicativa innata, legame tra le generazioni: quelle che lo parlavano nella quotidianità e quelle che, come la mia, lo hanno assimilato ascoltandolo ma non parlandolo, perché il boom economico degli anni Sessanta aveva portato con sé anche l’errata convinzione che si dovesse comunicare solo in italiano. Eppure la forza semantica del vernacolo è entrata nelle nostre orecchie di bambini e di giovani, sfidando e vincendo la presunta forza omologante della lingua televisiva. Conosco il bosino, lo capisco, lo parlo abbastanza bene, eppure ciò non ha inciso in alcun modo negativamente sulla capacità di uso corretto della lingua italiana, tanto che la insegno.

E mi piacciono tutti i dialetti, assimilo frasi e modi di dire del siciliano, del calabrese, del napoletano parlato da amici e colleghi che provengono da altre regioni. Ed è proprio la forza costruttiva del dialetto, come di ogni lingua, ad insegnarci e ricordarci con la sua storia, con il suo essere una vitale sovrapposizione progressiva e continua di prestiti linguistici che in fondo una lingua non appartiene a nessuno, perché è di tutti coloro che in un dato territorio sono passati, hanno vissuto e, vivendo, hanno lasciato un po’ di sé. Continuare a parlarlo ha valore se lasciamo che il nostro dialetto non muoia nel suo passato, ma si apra a tutte le contaminazioni inclusive e agli apporti di chi, vivendo in questa nostra terra varesina, lasci nella nostra cultura un po’ del colore del proprio linguaggio, della propria terra e del proprio cielo, magari lontano.

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