Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Editoriale

EBBENE, SÌ

GIUSEPPE ADAMOLI - 14/07/2016

riformaSono da tanto tempo un sostenitore dei punti essenziali della riforma costituzionale sottoposta al referendum di ottobre. Lo sono fin da prima di essere stato nominato (all’unanimità malgrado fossi all’opposizione del centrodestra di Formigoni) presidente della commissione che avrebbe poi proposto lo Statuto della Lombardia approvato da tutto il Consiglio regionale salvo qualche voto di estrema sinistra. Per questo, dopo qualche esitazione iniziale, ho accettato di guidare il Comitato provinciale di coordinamento per il SI.

L’idea di chiudere l’epoca delle due Camere paritarie, di affidare solo ai deputati la fiducia al governo e l’approvazione della gran parte delle leggi, di trasformare il Senato in Camera delle Regioni e delle Autonomie, di semplificare e accelerare in questo modo il procedimento legislativo era ciò che insieme a moltissimi parlamentari e consiglieri regionali sostenevo con grande convinzione sottoscrivendo documenti e mozioni.

Certo, una parte dei colleghi pensava che queste “carte” sarebbero rimaste nel cassetto per l’ennesima volta. Invece il Parlamento ha approvato la riforma con la complessa procedura del doppio voto di Camera e Senato e oggi siamo al referendum. Che il Senato abbia deciso la sua stessa soppressione rende merito ai senatori e mette in luce la necessità di mantenere integri i valori repubblicani e costituzionali ma di cambiare un assetto istituzionale ingessato che era stato il frutto della paura reciproca della Dc e del Pci, in piena guerra fredda, di consegnare all’avversario un sistema forte e funzionante. Quel mondo non esiste più, quel sistema politico si è sclerotizzato, è diventato costoso e inefficiente: il simbolo di una “lentocrazia” di cui bisogna liberarsi.

A questa esigenza se ne è aggiunta un’altra negli ultimi quindici anni. Va corretta sostanzialmente la riforma del rapporto Stato-Regioni (Titolo Quinto), voluta dal centrosinistra nel 2000 e approvata da referendum popolare nel 2001. Una riforma che inseguiva (maldestramente come abbiamo constatato) la visione leghista di un federalismo troppo spinto e immaturo che ha causato controversie e conflitti istituzionali e che ha finito per aggravare, anziché risolvere, i problemi italiani.

Riportare alla esclusiva competenza dello Stato le grandi infrastrutture, le politiche dell’energia, il commercio estero, la definizione senza ambiguità dei “livelli essenziali di assistenza”, pur confermando in questo campo le funzioni operative in capo alle Regioni, è improcrastinabile se si vuole che l’insieme delle Istituzioni funzioni in modo armonico e produttivo. La clausola dell’interesse nazionale in nome del quale lo Stato ha l’ultima e decisiva parola non è un dannoso orpello centralista ma una ineludibile necessità di uno Stato unitario.

Si tratta di un grave ridimensionamento delle Regioni? Da autonomista e regionalista convinto (non a parole ma con i fatti di una vita) affermo che ciò perdono a livello di funzioni specifiche le Regioni lo guadagnano alla fonte cioè nella partecipazione obbligatoria e determinante del Senato sull’intera legislazione che riguarda le autonomie territoriali e per tutto ciò che concerne le loro relazioni con lo Stato e con l’Unione europea. Altre competenze si potranno affidare alle Regioni se e quando se ne taglieranno una buona metà. È da sempre un mio cavallo di battaglia che enunciavo (tra i sorrisi scettici) anche alle Regioni più piccole quando illustravo le linee dello Statuto della Lombardia.

Dubbi su qualche punto delle riforma? Non possono non esserci, ma i dubbi miei sono le certezze tue e viceversa. Il buon compromesso è l’unica risorsa valida in questa opera di rinnovamento dello Stato e delle sue Istituzioni.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login