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Società

SOFFRIRE, NON SOCCOMBERE

EDOARDO ZIN - 22/07/2016

dachauMonaco. Primi di luglio. C’è una sorda calura che tutto avvolge perfino l’aria inverdita sotto la cupola degli alberi. Un affabile amico mi conduce a visitare il campo di concentramento di Dachau. Non l’ho chiesto io, si è offerto lui, tedesco della chiesa riformata.

Arriviamo davanti al cancello che porta ancora l’iscrizione: “Il lavoro vi rende liberi”. Sto per entrare, ma il mio amico s’inginocchia e appoggia le braccia sulle sbarre del cancello. Lo imito: ogni vivido ripensamento diventa subito floscio. Sto per varcare la porta santa del dolore e dentro di me rimugino pensieri di rabbia che si ammucchiano a quelli di perdono e di riconciliazione. Mentre visito la baracca adibita a museo, l’amico con un’accuratezza tipicamente teutonica mi racconta la storia di quel lager. È eccessivamente pignolo. Contrariato, gli chiedo di tacere e di lasciarmi fissare lo sguardo sulle fotografie, sulle suppellettili rimaste, sui volti pestati, sugli occhi sbarrati dei prigionieri. Girano le ore, la stanchezza s’impadronisce di me, sono come intontito e i pensieri pendono flosci.

Un attimo di pausa. L’amico mi propone di attraversare tutta la vasta area del campo per raggiungere i luoghi del ricordo: una chiesa cattolica, una sinagoga, un tempio della chiesa riformata e, nascosta tra le fronde di un pioppeto, una chiesa ortodossa. “Fuori del recinto sorge un piccolo monastero di carmelitane: lo vuoi visitare?”. Intanto, l’afa si fa più implacabile sotto un cielo esterrefatto.

Entriamo nella piccola chiesa. Un silenzio irreale si mischia all’aria che improvvisamente si è mitigata. Vicino a noi, due giovani si tengono abbracciati, lei posa il suo viso sulla spalla del ragazzo; più in là è seduto un giovane: si copre il viso con le mani; un gruppo di altri giovani prega. Mi colpisce questa tenerezza: è la prova brillante della misericordia di Dio, il segno che lì Dio non è morto.

“Sbrighiamoci. Alle cinque il campo chiude” – mi sussurra l’amico.

Penso di avviarmi verso l’uscita, invece l’accompagnatore mi conduce verso il lato ovest. “Poichè il numero degli internati cresceva in modo considerevole – mi spiega – nel 1940 i nazisti crearono, fuori del recinto del campo, una camera a gas e cinque forni crematori”. Rimango inorridito davanti a queste bocche di forno e, chissà perché, penso alle bocche dei mostri di Bomarzo. Uscendo, noto il “Leitenberg”, luogo dove, nei giorni precedenti la liberazione, furono interrate in fosse comuni 7500 vittime che non poterono essere incenerite a causa della penuria di carbone.

Mentre ci avviamo all’uscita, un tuono rintrona e il suo rombo si propaga all’infinito. Sembra il grido di sdegno di Dio. Se Cristo vivesse oggi sentiremmo la sua voce nitida in mezzo agli spietati, ai cinici, ai violenti, come credo con fermezza che con la forza attrattiva della sua grazia fosse vicino ai martiri dell’odio, della violenza, del fanatismo, del razzismo di ieri.

L’amico mi lascia vicino al mio albergo. Dal cielo, fattosi improvvisamente tutto chiuso, giallognolo cade un rabbioso acquazzone accompagnato da un violento vento. Cerco riparo nell’androne di un stazione della metropolitana. Sono bagnato fradicio e cerco di scrollarmi di dosso la pioggia.

In un angolo delle scala che scende alla metropolitana, un ragazzo consuma la sua cena. Due panini, una bottiglia di birra. Arriva un vigilante. Un energumeno alto e grosso intima al giovane di sgomberare. Il poveretto pone resistenza. Il poliziotto privato chiama rinforzi. Arriva un suo collega. Infilano due guantoni e trascinano il malcapitato fuori dall’ingresso, sul marciapiede dove la pioggia continua a cadere rabbiosamente. Il ragazzo si divincola, urla, pone resistenza. I due gli tolgono le scarpe e le gettano in strada. Il loro viso è di fuoco, gli occhi inferociti. Riescono nella loro impresa. Quando rientrano, io, che avevo assistito alla scena tra lo sdegno e la pietà, chiedo: “Perché avete fatto questo?” Uno dei due mi risponde: “È uno sporco polacco di m…”. A questo punto non mi resta altro che lasciare anch’io per solidarietà il rifugio di fortuna e raggiungere a piedi sotto la pioggia l’albergo.

Dopo cena, assieme a un’amica gallese e a un amico belga, assisto alla TV alla partita degli europei Belgio-Galles. Alla fine del primo tempo un flash comunica che a Dacca un fondamentalista mussulmano è entrato in un ristorante, ha già ucciso delle persone e ne tiene in ostaggio altre.

In un solo giorno ho visto fiorire tre episodi di odio perverso che ha avvelenato il nostro passato e intossica l’esistenza d’oggi: il pretenzioso e isterico razzismo del nazismo, la xenofobia che serpeggia sotto la paura del diverso, il fanatismo religioso che diventa irrazionale e genera invasamento.

Non ricordo più dove ho letto che l’odio è il più durevole dei piaceri. Certo, non libera dalla paura propagandata dai molti, non ama la ricerca della verità e, quindi, non è forte, ma debole, rende la vita piena di fiele e di acrimonia, scorre per le strade, copre le pagine dei social, scivola lentamente nelle scuole sotto forma di bullismo, varca le soglie dei templi con le persecuzioni religiose, s’insinua nelle famiglie, si maschera perfino dietro l’amore per una donna che viene vezzeggiata dai maschi come oggetto prezioso e piacevole per poi violentarla o umiliarla, si camuffa sotto certo tifo da stadio o nelle urla dei ragazzini davanti a un cantante o a un attore.

La mattina dopo, i mezzi di comunicazione vanno a gara nel celebrare la figura di Elie Wiesel, ma dimenticano di attualizzare la sua domanda:” Come fu possibile che giovani di ottima famiglia, istruiti nelle migliori università tedesche, si lasciassero sedurre dal male e dedicassero il loro genio al martirio e al massacro di uomini, donne e bambini ebrei che non avevano mai conosciuto prima?”

Lo so che è difficile dare una risposta a questa domanda. Qualcuno dice che l’Occidente è una nave che affonda. Lo psichiatra famoso dichiara che il livello della nostra civiltà è disastroso, “regredito alla cultura del nemico”. Per Chomsky “i padroni dell’umanità hanno ucciso l’Europa”. Per Bauman è “la politica che, quando perde la capacità di dar forma al futuro,tende a trasferirsi nello spazio della memoria collettiva che può essere facilmente manipolata e dà una sensazione di beata onnipotenza”. E se fosse perché abbiamo perduto la nostra identità e ciò genera in noi paura? Solo il traguardo estremo di ogni fatica umana produce in noi sicurezza.

Nessuno invita a guardare in faccia gli “oscuri recessi” della nostra anima ove si annidano misteri di cui ci vergogniamo, ove è sotterrato il nostro rancore, l’egoismo. Occorre spogliarci delle banalità, ritornare alla serietà, all’autenticità, al rigore e ad una vita più sobria.

Dopo alcuni giorni, a Fermo un uomo collerico uccide, forse inconsapevolmente, un suo simile, di razza nera. Aveva offeso sua moglie. Come possiamo condannare questo uomo quando il parlamento ha assolto un suo componente che alcuni mesi prima si era macchiato dello stesso reato?

Nel frattempo, si riaccende l’odio razziale negli Stati Uniti. A Nizza, dopo aver festeggiato per i fondamenti della nostra democrazia, un criminale assassino compie una strage. È la caccia al mussulmano.

Potrebbe essere un folle attentatore dell’ISIS. Potrebbe, al condizionale. Di contro, di certo c’è che l’assassino di circa cento persone a Stoccolma nel luglio di cinque anni fa non era mussulmano, ma un invasato di dottrine neo-naziste, che prosperano sempre di più.

Che fare, allora? “Possiamo soffrire, ma non soccombere”- ha lasciato scritto Etty Hillesum, morta a Auschwitz. Continuava nel suo diario:” A sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare lungo il filo spinato e dal mio cuore s’innalza sempre una voce che dice: “La vita è una cosa splendida e grande. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto d’amore e di bontà che avremo conquistato per noi stessi”.

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