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Zic & Zac

ARIA DI LAGO

MARCO ZACCHERA - 29/07/2016

lago

Dal traghetto Laveno-Intra

C’è un momento particolare in cui capisci quanto puoi amare il tuo lago e arriva verso l’alba quando – riposte le reti, sistemata la barca e circondato da un nugolo di gabbiani – riattacchi il motore e finalmente torni verso casa.

Ti senti addosso stanchezza e freddo nelle ossa, hai i piedi gelati e mentre ti stringi nel giaccone – sul lago la mattina fa sempre freddo, anche in piena estate – ti guardi intorno e capisci come lo spettacolo sia unico, sempre diverso, davvero un dono per pochi.

Di solito la pesca finisce quando albeggia e se il cielo è limpido le montagne di Laveno si stagliano buie e nette contro il cielo che si illumina svelto per l’aurora. Con quel loro contorno aguzzo sembrano indici di borsa e sfumano nella caligine solo giù verso Malpensa. Di fronte il Mottarone è già chiaro mentre là in fondo le Alpi, sempre bianche di neve, tingono ormai verso il rosa.

Qualche volta l’ultimo quarto di luna si staglia bianco nell’azzurro mentre la scia di qualche aereo ci ricorda che non siamo più ai tempi di quando la pesca era una cosa seria più faticosa e difficile di adesso.

Mentre rientro e tengo il motore quasi al minimo per godermi lo spettacolo, il pensiero corre alla notte appena trascorsa e agli stessi gesti che prima di me hanno ripetuto tante generazioni di gente di lago e le sento vicine, intime, immaginandole a guardare le stesse montagne anche se erano più solitarie e senza le troppe luci sui lungolago che con il giorno che cresce si spengono una ad una.

Di notte non ci sono quasi più tratti di costa liberi dall’eccessivo inquinamento luminoso e così sono diventate rare e invisibili perfino le stelle cadenti che non hanno più uno sfondo scuro per potersi stagliare nel cielo.

Non si sentono più nemmeno i campanili battere le ore perché durante la notte li hanno resi silenziosi: forse disturbavano il sonno, ma pescando facevano compagnia e soprattutto ricordavano agli uomini che il tempo corre e va e – per ogni giorno che comincia – presto tornerà un nuovo tramonto.

Intanto il traghetto da Intra o il primo battello tagliano l’acqua che come il cielo cambia veloce di colore insieme ai riflessi delle onde. Il rumore del motore si perde lontano come quello del treno di Luino, che – se l’aria è quella gusta – va e viene con un rombo che si spegne per ogni galleria.

Altre volte invece il lago al mattino è gonfio di vento, urla, schiaffeggia con le onde che si sfilacciano tra i cavalloni bianchi di spuma. Diventa duro traversarlo con il “Maggiore” o la tramontana che rotolano giù dalla Svizzera.

Così diverse le albe di nebbia o di foschia quando tutto sembra essere senza tempo, sospeso, leggero, impalpabile e nascosto.

È facile perdersi e allora usi la bussola finché improvvisa non appare l’ombra della costa e magari scopri di essere finito da tutta un’altra parte.

Solo quando doppi il promontorio della Castagnola di solito arriva la pace, l’aria si fa più mite con il profumo dei tigli o dell’olea fragrans a seconda della stagione.

In quel momento il lago si quieta, sembra voler finalmente lasciarti andare con la barca che scivola leggera e pare correre più rapida vicino a riva, i gabbiani smettono di inseguirti con il loro stridio incessante e uno ad uno si posano sull’acqua mentre alla fine – mentre entri in porto – appare il sole tra gli alberi.

Momenti in cui penso sempre a tutti i pescatori che ho conosciuto e sono già andati avanti. Quelli delle generazioni prima di loro ritornavano all’Isola a vela e mettevano ai remi la legione dei figli in barche più grandi e panciute delle nostre, con le reti tutte da pareggiare ogni giorno perché – di cotone e non ancora di nylon – asciugassero senza marcire.

È cambiato tutto nella pesca come in tanti aspetti della vita di lago, ma soprattutto è cambiato il rapporto di intimità, l’approccio con l’acqua di chi vive sulle sue rive e che troppo spesso dà per scontato il panorama, i colori, anche se la bellezza dell’alba in pochi la vivono e forse tanti ragazzi non l’hanno mai vista se non durante un ritorno dalla discoteca.

Basta un’angolazione diversa del sole, una nuvola, due dita di neve, un po’ di tramontana all’orizzonte per dare caratteristiche uniche ed irripetibili a quello che ti sta intorno e “annusi l’aria” che è sempre diversa.

Tutto oggi va più in fretta, le cassette per il pesce – così come gli attrezzi o le barche – sono di plastica o di polistirolo, quando una rete è rotta non la rammendi più ma la butti via. Sono reti cinesi e sembrano quasi senz’anima, certo non sono più il patrimonio di famiglia che una volta non potervi certo permetterti di perdere o rovinare.

Quante volte ho sfogliato libri antichi con i problemi di allora e che in questo campo erano così simili a quelli di oggi: litigi per i diritti di pesca, la messa a lago delle fascine, i periodo di divieto e i verbali infiniti di guardapesca scrupolosi.

Più recenti – ma sono carte ormai quasi già di un secolo fa – la corrispondenza che ancora conserviamo al Commissariato per la pesca con verbali di semine, rapporti, bollatura di reti e di attrezzi e mio nonno Felice (nel “1935 – XIII E.F.”) che da buon segretario teneva nota di tutto.

Spesso mi sono chiesto perché la gente di lago guarda al mare con timore e quale fascino sottile ci lega invece alla nostra acqua, soprattutto se il lago ha comunque per la sua grandezza una propria dignità.

Credo che ciò avvenga perché il mare sembra infinito mentre il lago è più simile alla vita degli uomini ricordandoci i nostri limiti, ma anche la necessità di proteggerlo e di non abusare prelevando troppo dalla sua dispensa, come per ogni risorsa naturale.

Per questo – come pescatore – spesso sono turbato davanti allo spreco di molti colleghi d’acqua salata, all’uso scriteriato delle reti e di attrezzi micidiali in troppe parti del mondo quasi a giustificare l’abuso, la pesca indiscriminata, l’eccessivo consumo di risorse.

Sul nostro lago non è mai stato così, ci sono regole ma anche una coscienza da rispettare in un connubio tra uomo ed acqua che va avanti da millenni ed è sorprendente leggere di come già nel Medioevo c’erano controlli e limiti, divieti e regolamenti a proteggere la riproduzione dei pesci che rappresentavano una fonte alimentare importante per tutti, sicuramente ben più diffusa di oggi.

Controlli e buonsenso nella consapevolezza che quelle acque dovevano essere controllate e protette, amate – quasi – sia nei momenti di abbondanza che di carestia.

D’altronde il lago era tutto: via di comunicazione e di commercio, di traffici e di contrabbando, acqua da bere e pesci da mangiare, fonte generosa di combustibile raccogliendo la legna che le piene scaricavano a valle quando – raccolta ed asciugata – diventava preziosa riserva per l’inverno.

Si viveva di niente eppure si metteva sempre tutto da parte seccando il pesce d’estate e salandolo per consumarlo in inverno quando abbrustolito su una fetta di polenta serviva ad imbrogliare la fame della gente. La pesca seguiva i suoi andamenti di stagione, i ritmi naturali che per millenni hanno permesso alle popolazioni rivierasche di godere di un reddito privilegiato, almeno rispetto alla povertà delle montagne circostanti.

Non so quanti alunni di scuola media conoscano oggi i nomi dei monti, dei venti, e dei pesci del loro lago, ma – quando ritorno da un viaggio in giro per il mondo e rivedo scorci e panorami – qualcosa mi ripete sempre che qui sono le mie radici e che sono uniche, belle ed irripetibili.

Esperienze che fanno parte di te, non puoi cancellarle e sono cose preziose perché legate alla tua storia ed ai tuoi ricordi.

Per questo, quando il lago la mattina si sveglia, per un attimo i ricordi e quelle voci sembrano così ritornare come brezza leggera, come la rugiada che di notte raccoglie l’umidità dell’aria, ma si asciuga veloce al primo sole.

 

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