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Il racconto

LA PASSEGGIATA

GIOVANNA DE LUCA - 29/07/2016

CROCIFISSODopo molti giorni, finalmente la pioggia era cessata. Pensò che poteva uscire. Prese l’ombrello, se non avesse dovuto aprirlo le sarebbe servito come bastone. Come dicevano i dottori, gli anziani devono camminare: tutti i giorni, un poco tutti i giorni. Le vennero in mente i suggerimenti della maestra, quando era bambina, alla chiusura della scuola, allorché assegnava i compiti delle vacanze: “Mi raccomando, un po’ di esercizio tutti i giorni!”. Nessuna cosa riesce bene, se non ci si allena, se non si fanno esercizi. Pensò, aspettando l’ascensore, che anche la solitudine, per riuscire bene, avrebbe bisogno di allenamento. Bisognerebbe che ogni tanto, mettiamo una volta all’anno, una moglie, o un marito, ma anche un figlio adulto, avessero l’obbligo di andarsene per un po’, come fosse un periodico servizio militare, a vivere in solitudine. Quella vera, però, senza nessun contatto con i parenti. Senza telefonare agli amici. Senza parlare con nessuno. Senza neanche avere un cane da portare fuori. Un eremitaggio, insomma. Così, diventati soli per forza e non per scelta, al momento giusto avrebbero saputo gestirsi.

Chiudendosi il portone alle spalle, pensò che lei no, non lo sapeva fare.

Quando le avevano portato in casa suo figlio, morto, raccolto davanti al portone, che sembrava dormisse, in terra tutta la notte come un ubriaco, non era stata la solitudine a occuparle la mente. L’incredulità, la disperazione, i perché, i sensi di colpa, l’angoscia per mesi e mesi ed anni le avevano fatto compagnia, con quel pensiero atroce: il non aver capito, il non aver visto, l’aver sottovalutato i rischi di un po’ di depressione, solo un po’ di depressione, dicevano i dottori. Gli esami che andavano male all’università, la ragazza che lo aveva lasciato, le prospettive di un lavoro difficile, una certa fragilità del carattere…Come avevano potuto queste cose finire in tante, ma tante, pastigliette rosa, buttate giù con l’alcol? Erano così innocenti, le pastigliette rosa: adesso che anche lei doveva prenderne qualcuna, si era domandata, talvolta, cosa avesse pensato il suo ragazzo in quel momento, in quell’atto di assumerle, in una stanza d’albergo, una alla volta: aveva pensato alla mamma? a suo padre scomparso presto, alle ragazze, agli amici? E cosa lo aveva spinto barcollante, nel cuore della notte, verso casa, per cadere poi davanti alla porta, esanime? Forse l’estrema volontà di salvarsi? Quali fantasmi, quali paure del futuro, quali debolezze, forse a lei sconosciute, lo avevano sottratto alla luce, alle giovanili risate, alle corse in bicicletta, a tutto il bene che avrebbe potuto accadergli? Come si può rinunciare alla vita, a vent’anni?

Eccome se si può. Ma aveva sempre creduto che accadesse a ragazzi malati, in situazioni particolari. Non certo al suo: bello, ben vestito e ben tenuto, curato come meglio non si sarebbe potuto. Solo un po’ depresso, solo un po’.

Ora camminava ai bordi della strada che portava a casa sua. Era una periferia residenziale, dove lei e il marito molti anni prima avevano acquistato un bell’appartamento, quando il bambino era ancora piccolo. Adesso le costruzioni si erano assai intensificate, ma c’era pur sempre tanto verde intorno. Ed era primavera. Oggi finalmente splendeva il sole: non dentro di lei, dove tutte quelle domande roteavano incessantemente.

Senza volerlo, aveva preso la stradina a sinistra che, tra ville e giardini, portava ad uno spiazzo erboso, affacciato sulla ferrovia. Asfaltata nel primo tratto, diventava poi un sentiero sterrato che si apriva sull’ampio panorama del lago. Un tempo, con il bambino piccolo, aveva l’abitudine di venirci, nella bella stagione, anche per far correre il cane. Camminò un poco, pentita di essere lì e insieme attratta dal luogo, dopo tanto tempo. Lasciate le ville alle spalle, niente appariva cambiato: la fresca erba primaverile, ancora luccicante di pioggia, s’incagliava contro un muretto sopra la ferrovia, costruito probabilmente a difesa e avvertimento: poi la scarpata precipitava a picco sulle rotaie.

Si appoggiò ad esso. In una interminabile carezza il profilo delle colline disegnava l’orizzonte e le macchie di verde nuovo si alternavano ai tetti dei paesi in lontananza. Spingendo lo sguardo verso destra, si scopriva quasi per incanto il lago, seminascosto da molte betulle, e più oltre ancora s’intuiva la catena montuosa, oggi incappucciata. Quanto è bella la natura, pensò. Si rese conto che da molti anni, da quando si era quasi imprigionata in casa dentro il suo lutto, non ne aveva più cercato il contatto, come faceva da giovane. E mentre rifletteva su ciò, le tornò in mente un episodio che a suo tempo l’aveva enormemente turbata: si trovavano, lei e il bambino, su quello spiazzo, con il cane che il piccolo adorava. Ad un tratto l’animale, attirato da chissà cosa, saltando dove il muretto era più basso, si era messo a correre velocissimo abbaiando giù per la scarpata. Il bambino disperatamente lo chiamava e, se lei non lo avesse trattenuto a forza, si sarebbe precipitato per fermarlo. Erano stati momenti difficili: il cane abbaiava, suo figlio gridava e si divincolava, un treno sarebbe potuto arrivare all’improvviso…come difatti arrivò. Ricordava che voltandosi verso di lei e dibattendosi, egli aveva chiesto, quasi implorato: “Perché, perché, perché?”…

Perché. Perché, mio Dio, mi hai abbandonato? Se lo chiedeva ora, mentre si allontanava da lì e risaliva sulla strada principale. Quando la raggiunse, ancora senza volere piegò a sinistra. Camminava assorta, apparentemente senza meta. E si trovò ai piedi della chiesa. Bisognava percorrere una breve ma erta salita per entrarvi. Quel “perché”gridato dal bambino ed ora così forte in lei le diede la spinta, e salì.

Era metà pomeriggio, la chiesa era deserta. Entrando dalla luce, l’avvolse un’ombra fresca, lievemente profumata di fiori. Si sedette a metà, su una panca. Non era mai stata particolarmente religiosa, piuttosto tradizionalmente osservante, come da educazione ricevuta. Quell’educazione che portava all’ordine, al rispetto di certe regole di cui in fondo non si era mai chiesta le ragioni profonde. Il valore più forte in lei era stato l’amore materno: l’amore verso “suo” figlio. Gli occhi abituandosi alla penombra, cominciò ad osservare le navate, le statue e i dipinti nelle cappelle laterali, il soffitto. Da esso, tra la navata principale e l’abside, pendeva un grande crocifisso. Un fascio di luce, come un pulviscolo, da una finestra laterale lo investiva, e andava a illuminare il volto del Cristo.

Quante raffigurazioni di Cristo morto aveva visto nella sua vita? Un’infinità, tra dipinti e sculture, famosissimi in tutto il mondo o meno, in tante città, chiese, musei… Quella che aveva davanti non doveva essere una grande opera d’arte, eppure aveva qualcosa che la colpiva: era l’abbandono con cui il capo si piegava sulla spalla, la dolcezza dell’espressione, nel declino della morte. D’istinto, cominciò a fargli silenziose domande, dimenticando che quel Cristo era Padre e Figlio insieme: perché non si era ribellato? perché non aveva detto che non voleva, no, essere torturato e ucciso per un’umanità che avrebbe sempre comunque fatto del male? a chi aveva giovato il suo sacrificio, se la storia era stata una continua scia di guerre e di sangue e ancora oggi appariva come un’unica mai finita tragedia? E infine allora perché quel riscatto non aveva impedito il suicidio di suo figlio?

Questo era il punto. Nell’omelia, al funerale, il prete aveva detto che nell’aldilà l’anima di suo figlio sarebbe comunque stata felice. Le era sembrata un’assurdità, quasi un’offesa: poteva Dio consentire, quindi volere, che un ragazzo di vent’anni si uccidesse per essere felice “di là”, lasciando tanto dolore di qua? Dio non poteva agire in modo così incomprensibile. C’era Dio, accanto a suo figlio, mentre ingoiava, una alla volta, le pastigliette rosa? Guardava il volto di Cristo, e aspettava una risposta. Pensava a sé sola, per sé sola chiedeva il perché del male nel mondo.

Intanto il sole si avviava al tramonto, mentre il pulviscolo rosa si riduceva, senza scostarsi dalla croce su cui lei teneva fissi gli occhi. Ma la risposta non venne. Come aveva creduto di poter affrontare, lei, semplice donna ferita, il mistero della vita e della morte, di capire le ragioni di Dio? Uscendo di chiesa, si voltò a guardare ancora quel volto che tanto la coinvolgeva: e osservò che nella dolcezza dell’espressione c’era pace, non resa; accettazione, non sconfitta. Tornando verso casa le parve di sentire la voce del suo ragazzo, che le diceva: “ Mamma, non tormentarmi con i tuoi tormenti, non farmi domande con le tue domande, dammi pace con la tua pace”. E si guardò intorno, e sentì che il tramonto era tiepido, che poteva goderne anche se non era dato comprendere il susseguirsi delle notti e dei giorni.

Entrando nell’atrio, incontrò la ragazza del piano di sotto, quella con le gonne troppo corte e gli occhi troppo truccati. Non si salutavano mai. Stasera, tenendole aperta la porta dell’ascensore, la salutò per prima. E la ragazza rispose come se sempre l’avesse fatto, con spontaneità, aprendosi a un largo sorriso sulle labbra rosse. Arrivata al suo piano, uscì dall’ascensore a testa china. Le sembrò triste. Sapeva che viveva sola. Poteva avere trent’anni. Non si sapeva bene cosa facesse, si diceva che cambiasse spesso lavoro: commessa, babysitter, modella…Non godeva di troppa reputazione nel condominio, in sostanza nessuno si interessava di lei più di tanto. Come prima non era mai successo, questo fatto le dispiacque. Di quanti tipi può essere la solitudine? Si pensa sempre che soprattutto i vecchi si sentano soli. Non dev’essere così, pensò mentre si preparava un po’ di cena. È brutto mangiare da soli, lo sapeva bene, ma ci era abituata. Però, come sembrava triste la ragazza del piano di sotto, nonostante il sorriso. Probabilmente stava mangiando da sola anche lei. Domani, si disse, domani l’avrebbe invitata a pranzo.

 

 

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