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LA CAVERNA E UNO SCHERMO

MARGHERITA GIROMINI - 09/09/2016

veneziaTra le abituali azioni del quotidiano a cui ci riporta settembre, io annovero anche il cinema.

Mi piace che nelle ultime propaggini dell’estate la Mostra del Cinema di Venezia anticipi la lunga stagione dei film che ci accompagneranno durante i tanti mesi di lavoro.

Mi piace che si propongano degli incentivi per riportare la gente nelle sale, multisala o d’essai: tra qualche settimana ci si potrà recare al cinema con due soli euro, ogni secondo mercoledì del mese. Un gradito regalo a noi cinefili che mal sopportiamo l’idea di un buon film visto in TV, tra una pubblicità e l’altra, tra una visitina al frigorifero in cucina e una telefonata tardiva.

Perché un vero film pretende di essere visto in una vera sala, al buio – si spengano le luci degli smartphone, per favore – in compagnia degli amici ma anche da soli, se quel film è importante solo per noi.

Al buio si ritorna nella caverna descritta da Platone, “… considera degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a mo’ di caverna, avente l’ingresso aperto alla luce e lungo per tutta la lunghezza dell’antro, e quivi essi racchiusi sin da fanciulli con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardar solo dinanzi a sé, ma impossibilitati per i vincoli a muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda dietro di loro, in alto e lontano e che tra il fuoco e i prigionieri corra in alto una strada, lungo la quale è costruito un muricciolo, come quegli schermi che hanno i giocolieri a nascondere le figure, e sui quali esibiscono i loro spettacoli”.

Noi spettatori di qua, nel fitto buio che richiama quello primordiale, vediamo scorrere sul video le immagini di una storia che qualcuno si è impegnato a raccontare proprio a noi. In questa moderna caverna si muovono le maschere degli attori come nella tragedia greca; e l’attore non è più George Clooney ma diventa il personaggio che lui sta interpretando per noi; le sue vicende sono le nostre, le mie. Il lieto fine del suo personaggio è il possibile lieto fine che potrebbe toccare a ciascuno di noi.

E quando la storia dovesse finire male, qualche volta succede, e il protagonista muore, pianto e rimpianto, oppure viene clamorosamente sconfitto in battaglia o in amore, le vicende del film trovano il modo di far sopravvivere gli altri, così come succede nella vita vera.

Nella buia sala possiamo passare inosservati, pure se ci troviamo in compagnia di altri, e siamo soli davanti al film, pronti a identificarci, capaci di sorridere o di soffrire con i personaggi degli eventi narrati.

Un film è come la fiaba per i bambini. Ci propone le vicende della vita nella loro crudezza, come la storia della nonna e Cappuccetto Rosso che vengono mangiate dal lupo; meno male che presto arriva per loro la salvezza insieme con la lezione indiretta che si può e si deve imparare dalle tante esperienze, anche da quelle brutte. Il bambino si consola interiorizzando il messaggio che una soluzione esiste e il male riceve la giusta punizione, come piacerebbe tanto anche a noi adulti.

Un film, se ne parla di questi tempi negli Usa grazie a un libro che analizza il valore emotivo del cinema (“The feel – bad film” di Nikolaj Lubecker, 2015), può essere realizzato per far star bene oppure per far star male. Banale? Nemmeno troppo.

Nel passato anche recente il cinema si fondava su due principali categorie: i film costruiti per far star bene (i “feel good movies”), ma bene davvero, che secondo Lubecker sono pochi, Quasi amici, Il favoloso mondo di Amelie; e quelli che vogliono, o possono far star male, come Into the wild e Il gladiatore (i “feel bad movies”). Categorie un po’ traballanti, perché si starebbe bene con film consolatori, basati sull’inevitabile happy end anche se in contesti assolutamente irrealistici, e si starebbe male con i film in cui al nostro eroe succedono proprio tutte le disgrazie del mondo e dove infine lui, quando la trama lo consenta, muore. Qualche attore del passato amava il finale tragico: Jean Gabin pretendeva che nei suoi contratti fosse inserita la clausola della sua morte alla fine del film. Un modo per aggiungere più tragicità alle sue interpretazioni? Una risposta al “cupio dissolvi” di quelli spettatori che pagano il biglietto per andare a stare male?

Uno dei padri della psicologia del cinema, Cesare Musatti, aveva spiegato la funzione catartica del film, del sollievo che coglie noi spettatori, allorché, identificandoci con lo sventurato protagonista, “possiamo riconciliarci con quella vita quotidiana dalla quale avevamo tentato di evadere recandoci al cinema”. Perché il meccanismo sotteso alla finzione cinematografica fa sì che, mentre soffriamo per le disgrazie rappresentate sullo schermo, comunque ci possiamo sentire al sicuro, protetti dalle mura del luogo che ci racchiude.

La parola chiave del cinema può essere dunque “sollievo”.

Ma se qualcuno ama soffrire senza lieto fine, quest’autunno sarà ampiamente accontentato: troverà film che faranno star male e basta, che ci restituiranno all’aria aperta senza alcuna speranza di riscatto. Potrà sperimentare stati d’ansia senza sollievo finale seguendo le vicende di una risoluta donna generale, che nel film Diritto di uccidere dovrà scegliere, non se uccidere o meno, ma CHI uccidere.

Gli sarà consentito assaporare un terrore da incubo nel nuovo Paradise Beach accanto alla protagonista che incontra terrificanti e impietosi squali bianchi, versione aggiornata al terzo millennio della serie americana degli Squali in serie numerica progressiva.

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