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Editoriale

IL LIMITE

MASSIMO LODI - 07/10/2016

si noIl premier Matteo Renzi ha prevalso nel confronto televisivo sul referendum costituzionale con il giurista Gustavo Zagrebelsky. Un risultato evidente a chiunque abbia avuto la ventura e il piacere di assistere al talk condotto da Enrico Mentana su La7. Ma un solo commentatore, Eugenio Scalfari, certo non sospettabile di prevenzione verso l’amico Zagrebelsky o di sostegno al non sodale Renzi, ha riconosciuto con onestà intellettuale il risultato: 2-0 per Renzi su Zagrebelsky.

Il primo ha spiegato le ragioni che inducono a semplificare il processo legislativo, a ridurre parlamentari e costi della politica, a cancellare il Cnel, a rendere l’Italia un Paese più credibile e nel quale investire quattrini stranieri. Il secondo non ha spiegato perché, così facendo, si condurrebbe l’Italia verso una deriva autoritaria, pur se nella riforma non vi è traccia di aumento di poteri del premier. O altro di natura presidenzialistico/sudamericanista e giù di lì.

La sfida ha anche toccato il tema della nuova legge elettorale (peraltro in odore di possibili modifiche), secondo Renzi necessaria per permettere a un vincitore di governare, secondo Zagrebelsky utile all’instaurarsi d’una oligarchia autoritaria. L’uno ha l’idea di un sistema rappresentativo dove tutti concorrono a scegliere alcuni che poi decidono e fanno, e l’opzione maggioritaria -che funziona bene in tanti Paesi a indubitabile tasso democratico- non inquina il principio di libertà; l’altro è sembrato avere l’idea di un analogo sistema dove però tutti rischiano di essere inutilmente padroni, perché questo paradossale risultato può sortire da un meccanismo di voto troppo premiante della rappresentatività e affatto garante della governabilità.

C’è un ulteriore e preoccupante aspetto, nel caso del prevalere della tesi Zagrebelsky sulla tesi Renzi: che quando tutti sono padroni, tutti sono al tempo stesso schiavi. Lo sosteneva il pensatore seicentesco Jacques Bénigne Bossuet, che non aveva conosciuto i regimi sovietici (e di questo poco c’importa, essendo l’Italia una cosa, ed essendo stata l’Urss una cosa totalmente/totalitariamente assai diversa), ma intravedeva i pericoli dell’inconcludenza egualitaria.

Il trascorrere dei secoli ha confermato che spesso/sempre i progetti ideali si rivelano irrealistici, e non pare un peccato di presunzione o uno sbarellamento partigiano attualizzare il concetto. Specie se si è in presenza di sostenitori del fatto che il Parlamento dev’essere più luogo di discussione che di deliberazione e che la ricerca del consenso debba anteporsi sempre e comunque all’efficienza operativa.

La verità è che nella vicenda di cui parliamo si ripropone il limite dell’utopia politica. Essa non bada a far seguire all’esercizio del diritto di scegliersi i parlamentari il dovere di metterli nella condizione di promuovere il governo in grado di guidare un Paese per l’intera legislatura. Come se tale prospettiva fosse giudicata in sé pericolosa e non rientrasse invece -come sostiene lo storico Giovanni Sabbatucci- nella “…sana fisiologia di un sistema parlamentare in cui esecutivo e legislativo sono uniti da un forte vincolo fiduciario in quanto entrambi legittimati dallo stesso voto popolare”. La concezione debole e non competitiva della democrazia ha radici importanti nel liberalismo ottocentesco (è noto l’argomentare di Tocqueville sulla dittatura della maggioranza) e se ne giustifica l’esistenza per gestire situazioni marcate da profonde fratture partitiche e in cui è utile ricorrere a grandi alleanze; ma il forte affermarsi, nell’Italia della Prima e Seconda Repubblica, della democrazia consociativa ha causato così tanti danni che sventare l’occasione di riproporla appare una virtù, altro che un difetto.

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