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Attualità

GLI UNGHERESI E L’EUROPA

EDOARDO ZIN - 07/10/2016

Viktor Orban

Viktor Orban

La casa comune europea ha una pietra angolare: la riconciliazione, sorta dopo tre guerre, di cui due mondiali, tra Francia e Germania. Si fonda su quattro pilastri fondamentali: la pace, la solidarietà, la prosperità e la sovranazionalità.

Purtroppo, l’edificazione della casa è cominciata dal tetto: la moneta, che è l’unica cosa che associ diciotto paesi dell’Unione. Procedendo così, la finanza e l’economia hanno avuto la supremazia sulla solidarietà, sul bene comune dei cittadini europei, sull’attuazione di politiche sociali comuni. Il “cantiere” europeo non è solo un progetto giuridico-politico, ma soprattutto un impegno morale e spirituale dei cittadini, in continua crescita.

Nell’edificare la casa comune, ci si è dimenticati inoltre di costruire un’ampia, accogliente sala d’attesa, dove potessero aspettare i paesi candidati all’ingresso nell’Unione. Dopo la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, i paesi dell’est chiesero di aderire all’UE. I negoziati cominciarono nel 1989 e il 1°maggio 2004 Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia entrarono nell’UE assieme a Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e due paesi mediterranei: Cipro e Malta.

Questi paesi avevano atteso quasi cinque anni per poter applicare la legislazione comunitaria, per passare i loro bilanci sotto il severo monitoraggio da parte della Commissione, dovettero effettuare riforme, adattare strutture in vista del loro ingresso. Come di consueto furono trascurati gli aspetti umani, educativi, intellettuali, culturali necessari per una loro adesione a pieno titolo all’UE.

Di conseguenza, questi paesi videro nella loro adesione all’Europa soltanto un’occasione propizia per sollevare la loro disastrosa economia beneficiando dei fondi per le politiche agricole comuni, ricevendo risorse per colmare il divario di sviluppo tra zone interne, per creare moderne infrastrutture e per attirare nel loro territorio, in virtù di un regime fiscale vantaggioso e di un basso costo del lavoro, imprese estere.

Mentre nei rimanenti paesi dell’UE si affievolivano i nazionalismi, che cedevano il posto ad una rifioritura delle tradizioni culturali locali (si pensi ai fiamminghi in Belgio, agli scozzesi in Gran Bretagna, ai baschi e ai catalani in Spagna, ai corsi e ai bretoni in Francia), la scena dei paesi dell’Europa centro-orientale – già dominati da ottomani, austroungarici, zaristi, sovietici, nazisti e comunisti – e nei quali s’intrecciano molteplici etnie, l’idea nazionale apparve come emancipatrice, tanto più che essa era protetta economicamente dall’UE.

Si rafforzò pertanto il senso della nazione, talvolta, come lo dimostra la decomposizione della Cecoslovacchia, su base etnica. Ma la rigenerazione dello stato nazionale rafforzò la sovranità dello stato a scapito della cooperazione europea e dell’integrazione sovranazionale.

In Ungheria, in particolare, si risvegliarono vecchie contese accompagnate dal sogno della “grande Ungheria”: nel 2014 il partito conservatore guidato da Orbàn sostituì il precedente governo socialista-liberale e impostò una politica nazionalistica guidata da un’economia di nazionalizzazioni e guidata da una omologazione democratica forzata.

Davanti al fenomeno planetario delle migrazioni, Orbàn non trovò migliore soluzione di quella d’innalzare muri per difendere il suolo ungherese dall’assalto dei profughi che cercavano di raggiungere i paesi del nord attraverso la rotta balcanica.

Orbàn, nella fiducia di rafforzare anche il proprio potere interno, indisse un referendum popolare chiedendo agli ungheresi di pronunciarsi o a favore o al contrario sull’accoglienza della quota di migranti imposta dall’Unione Europea. Diversamente da ogni previsione, il referendum non raggiunse il quorum di partecipazione (andarono a votare circa 4 ungheresi su 10), anche se i votanti si pronunciarono per il 98% contro l’ingresso di profughi.

Fin qui i fatti. C’è da chiederci ora perché all’interno dell’UE possano esistere paesi che non rispettano gli accordi stabiliti dalle istituzioni e soprattutto perché sia venuta meno la solidarietà, che è una delle pietre fondamentali della comune casa europea.

L’Ungheria ha una forte identità nazionale. Essa è fondata su stretti vincoli con la religione (non la fede, anche lì in declino come in tutta Europa!). Basti pensare che la nazione ungherese si fonda su una presunta donazione alla chiesa di re Stefano, proclamato santo, come pure lo fu un’altra regina, Elisabetta, e che Martino, il santo dei poveri di cui ricorre quest’anno il 1600° anno dalla nascita, nacque in Pannonia (l’attuale Ungheria). È un’identità nazionale, dunque, “sacralizzata”, resa ancor più vigorosa – e sembra un paradosso – dalla dominazione comunista.

Tralasciando le ragioni politiche interne del partito di maggioranza che fanno leva, come tutti i populismi, sulla paura del diverso, dello straniero, è evidente che l’Ungheria tema, aprendosi in modo solidale verso coloro che chiedono asilo, di perdere la propria identità. Questo è il vero problema (e non solo dell’Ungheria): paventare che, accogliendo differenze culturali di altri paesi, possa venire meno la propria storia e cultura, mentre è vero il contrario: l’Europa è nata dall’apporto di differenti culture mediate ed è in declino per il vuoto spirituale che si è creato attorno ai suoi valori fondanti.

La maggioranza degli ungheresi, astenendosi dall’andare alle urne, ha dimostrato di condividere la proposta dell’Europa di accogliere una quota parte di richiedenti asilo e di aprirsi così all’integrazione, contribuendo a una nuova metamorfosi d’Europa e alla possibilità dell’Europa di contribuire alla metamorfosi del mondo. Dimostrando inoltre, che “dove c’è pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza” (Holderlin).

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