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Stili di Vita

SORDITÀ DEL MONDO

VALERIO CRUGNOLA - 07/10/2016

bergoglioQuesto articolo non ha risposte, nemmeno formula apertamente una domanda. Semplicemente vi sottopone in chiave autobiografica una constatazione che non so spiegare. Non mi spiacerebbe se altri collaboratori del settimanale offrissero ai lettori qualche spunto che riprenda in modo autonomo la mia domanda entro altre rubriche.

Fui colpito da Jorge Bergoglio fin dal suo primo discorso poco dopo l’elezione. Mi piacque subito e conquistò la mia fiducia. Per essere sincero dovrei parlare di un’istantanea esultanza. Dopo oltre trent’anni di papi conservatori, integralisti in più di una circostanza, ne era stato eletto uno capace di interpretare la modernità, di parlare a tutti, di immettere nel mondo quella spinta a un rinnovamento nella pace, nella fraternità e nella giustizia che prima di lui solo il Concilio Vaticano II aveva saputo imprimere tra molte resistenze. Mi sono sentito uno dei tanti ai quali, dopo essere stati salutati con in irrituale «Fratelli e sorelle buonasera!», erano rivolte le parole di un vescovo «venuto da lontano». Le mie oscure attese furono ampiamente ripagate.

Le prime conversazioni furono con due non credenti, Scalfari e Odifreddi. Forse la scelta degli interlocutori non fu felice, ma il dialogo iniziò. Il primo viaggio fuori Roma di Francesco fu a Lampedusa, luogo tra i più simbolici delle enormi tragedie che si consumano, prima ancora che in mare (quello è il meno!), nelle terribili guerre che molti uomini combattono contro altri uomini, contro i più deboli, contro i diritti umani elementari, contro l’ambiente, contro la memoria e l’arte, contro il bene comune, contro la stessa vita. Ma altresì Lampedusa, anche prima della visita di Francesco, è un luogo dove la generosità solidale si è fatta strada ed è diventata il sentire di un’intera comunità. Sono rimasto incollato alla tv tutta la mattina e ho pianto come un vitello.

Non era dunque solo un papa capace di interpretare il nostro tempo, di parlare a tutti e così via: era anche un uomo capace di sollevare enormi onde emotive, vissuti e sentimenti che ci predispongono al bene e all’empatia con la sofferenza, e che ci chiedono, per l’imperatività propria delle passioni sane, di agire in vista del bene, di non stare fermi a girare i pollici magari deprecando quanto male va il mondo su Facebook.

Poi venne una serata di riconciliazione nei Giardini vaticani, con tutti i rappresentanti delle religioni, il compianto Shimon Peres e Abu Mazen. Tutti i libri sacri, si capì allora, nel nocciolo parlano di pace: il messaggio passò. Il Medio Oriente, lo sapevo benissimo, è un problema al di sopra delle forze di un papa, ma quella comune preghiera per la pace appariva essere qualcosa di più di un buon auspicio che mette a posto le nostre coscienze: era un monito, l’indicazione di una via e un presagio. La cerimonia era toccante e anche lì piansi. Persino Abu Mazen, che non mi ha certo mai né mosso a simpatia né convinto circa i suoi intenti di conciliazione, benché anche quella sera apparisse come al solito ingessato e impermeabile ai sentimenti, mi indusse a sperare. Di nuovo credetti che il mondo potesse essere attraversato da un grande impeto di aspirazioni collettive al dialogo e all’intesa.

Quando un anno e mezzo fa uscì la Laudato si’, fui tra i primissimi a comprarla. La cassiera della libreria mi disse: «Li abbiamo appena messi in vetrina e lei è già il terzo». Ho letto l’enciclica di un fiato e subito l’ho schedata, ho girato la mia scheda a molti amici e amiche perché ne facessero l’uso che credevano migliore, ne ho scritto e parlato in più occasioni. Mi sono detto: «Questo testo avrà l’effetto di un terremoto salutare», è un colpo inferto ai potenti della terra e un invito a tutti a darsi una mossa per salvare, ciascuno secondo le sue possibilità. e consegnare il mondo in cui viviamo, il solo pianeta di cui possiamo essere ospiti, alle generazioni future in modo che sia per loro abbastanza integro, equo e vivibile. L’enciclica parlava di impegno nel locale e quei passi li ho vissuti come se fossero rivolti a me, allora impegnato nell’azione civica.

Ho passato mesi carichi di fiducia. Mi aspettavo un impatto sul pensare e sentire comune quale quello della Pacem in Terris, che ebbe enorme risonanza in tutto il cristianesimo occidentale e anche tra i non credenti. Ricordavo le discussioni da ragazzo sull’enciclica giovannea, uscendo da scuola o a sera, finiti i doveri per il giorno dopo; e immaginavo dei sosia della mia stessa età di allora, visti di spalle, intenti a leggere e discutere con l’entusiasmo dei giovani la Laudato Si

 Infine è venuto, in una data del tutto irrituale, l’Anno Santo della Misericordia. Di nuovo una sorpresa. Minore, almeno su di me, l’impatto emotivo, anzi piuttosto freddino; più forte, però, la comprensione intellettuale. Mai avevo pensato di riflettere sulla parola misericordia. L’ho sempre considerata «minore», un’intenzione della volontà da cui discende una prassi, dunque qualcosa di non immediato, di non spontaneo anche se sincero. Una parola che associavo a un invito: «Sii misericordioso»; roba da predica della domenica, quando tutti si complimentano con il sacerdote e hanno tra loro parole di apprezzamento, e poi nulla cambia. In più, era una parola estranea al mio lessico, priva di cittadinanza tra i laici. Poi ho preso confidenza con il concetto e ho cominciato a farlo mio.

La misericordia consiste nel riservare nel nostro cuore sempre un posto ai miseri: a chi non ha accesso ad alcuna felicità possibile, a chi è privato della speranza, a chi è schiacciato dalle sofferenze, a chi è abbrutito da una vita di stenti, di privazione materiale, affettiva e morale, di ignoranza, di discriminazione, di solitudine, di malattia e di follia. I miseri sono quell’umanità messa ai margini, inguardabile perché inquietante, che l’enciclica paragona ai rifiuti. Amare i miseri di nuovo non si può prescrivere. Ma già una misericordia a bassa intensità, che si occupa di procurare coperte termiche, abiti e pasti caldi ai profughi e ai richiedenti asilo sbarcati a Lampedusa anche senza smuovere parole forti ed edificanti, sarebbe un buon risultato.

In certi momenti della storia, il dovere di rinnovare la nostra oblatività verso gli altri ha la forza di un imperativo categorico. Non possiamo restare indifferenti o peggio avversare chi necessita della nostra misericordia. Se restiamo indifferenti, è perché, lo si ammetta o no, ci va bene un mondo di diseguali, di conflitti, di discriminazioni, di distruzione dell’ambiente umano e culturale, con tutto il suo patrimonio. Molti negherebbero, perché ancora certi cattivi sentimenti non sono stati del tutto sdoganati. Solo certi ormai vecchi «nuovi barbari» li rivendicherebbero, solo perché hanno scelto di prendere i voti di chi non si sente perbene. Chi si sente perbene, risponde: «Chi, razzista io?».

Mi immaginavo, in una parola, che una personalità semplice e affascinante, comunicativa e profonda come Bergoglio potesse dare la scossa necessaria al mondo.

Il dialogo tra credenti e non credenti si è esteso. Lampedusa è ancora lì, e ora si sono aggiunte Lesvos, Kos, Chios o Samos. Le vie della morte dei moderni fuggiaschi si sono arricchite di nuovi itinerari. Invece di offrire misericordia molti governi erigono muri. A Calais cresce l’inferno terrestre. L’Europa finge di essere premurosa. Una statista vera come Angela Merkel prima si espone con coraggio, poi deve evitare di restare imprigionata in una sovraesposizione mediatica e infine perde voti tanto a sinistra quanto, in ben altra proporzione, a destra.

Il Medio Oriente è sempre in fiamme. Magari ci fosse solo la questione palestinese, vien da dire! C’è quella siriana, la libica, l’irachena, l’afghana, la turca, la libanese, l’egiziana. Ci sono le sorti tragiche dei curdi e dei cristiani perseguitati e le bombe ad orologeria solo apparentemente disinnescate in Iran, Azerbaigian e nelle repubbliche ex sovietiche a dominanza islamica.

Un’immensa area geopolitica dissestata non presenta vie d’uscita e su di essa si gettano come gatti sul lardo pericolosi dittatori come Putin o Erdogan, vogliosi di espandere il loro raggio di influenza e di affari.

Subito dopo l’enciclica, la conferenza sul clima era nel mirino di Bergoglio: l’allarme è rosso, il papa parlò chiaro, ma i Grandi (!) hanno partorito uno squallido compromesso che tutto rinvia, come se la vita fosse qualcosa da posticipare al menzognero e fallimentare culto ateo del libero mercato assoluto.

E la misericordia? Non vedo in giro nuove persone misericordiose. Chi lo era già lo è ancora. Chi non lo era non lo è diventato. Non sento questo flusso caldo scorrere tra noi. Non colgo un afflato di generosità. Certo, la vicina Como si è mossa. Ma spesso sono scelte etiche; la misericordia è un sentimento che schiude all’etica ma che sgorga dalla nostra emotività, mentre l’etica si mette in guardia dall’emotività come da un pericolo.

Perché il mondo è così sordo? Perché gli atti eccezionali di un papa sorprendente hanno strappato emozioni e buoni sentimenti, ma poi – passato l’effetto mediatico – ben poco è rimasto? Non diamo la colpa al messaggio: più potente di così non poteva essere. Non diamo la colpa ai cuori aridi di masse insicure e mal informate e agli imprenditori politici che ne aizzano la paura e ci lucrano sopra. Non diamo la colpa al consumismo, al dominio delle merci, agli ineffabili «Poteri forti» che ossessionano la psiche dei grillini. Non diamo colpa alla scuola che non offre più credibili esempi morali, o all’ignoranza volontaria su cui molti si stravaccano in beotitudine.

Credo che il concetto di colpa sia fuorviante. I processi di interdipendenze multiple a cui chiunque nel pianeta è ormai sottoposto sono troppo vasti; il mondo è ingovernabile; gli attori sono tanti e tutti anonimi, ma noi siamo inclini a sostituire schemi di causa ed effetto che non aiutano a capire.

Chiedo a chi qui si occupa di religione di provare a spiegarmi perché Francesco non ce l’ha fatta. A me non riesce. Se uno come Bergoglio non ha potuto smuovere un sopore e una rassegnazione apparenti dietro i quali giacciono sofferenze psichiche e sociali enormi anche nel mondo più ricco fino a suscitare una «conversione» in ciascuno di noi, chi altro mai potrà farlo?

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