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Cultura

L’AUTODIDATTA DELLA VITA

LUCIANO DI PIETRO - 11/02/2012

Ti ricordi, Lino? Eravamo a Parigi, al teatro dell’Opera, seduti in platea. Davano la Carmen. Ti avvicinasti al mio orecchio per sussurrare: “Il tenorello è un po’ sfiatato, lei negli acuti scalchigna, e il triangolo va fuori tempo. Ma è bello lo stesso, si sforzano”. Ma che cosa ci facevamo a Parigi? Niente, una zingarata fine anni Sessanta. Come si usava a quei tempi, da ragazzi o quasi. Con due altri amici avevamo preso la macchina e via, nella Ville Lumière! In tenda! Proprio così, in tenda! Figurarsi: per quanto mi sforzi, proprio non riesco a ricordarmi se e dove la piantammo. Chissà: al Bois de Boulogne? Fatto è che invece di andare a vedere lo strip-tease, eravamo andati a infilarci all’Opera (svaniti tre quarti dei nostri fondi per i biglietti) a vedere un’edizione della Carmen di serie bi. Per fortuna, durante l’intervallo, nel foyer apparve una visione che ci riconciliò con il grande teatro: una ragazza in lungo bianco, bella come una dea. Ci è rimasta per qualche tempo nel ricordo, come un simbolo; forse, anzi certamente, sublimata nel ricordo. Forse, non era poi così bella, si sforzava anche lei. Non sono il più adatto a parlare di te (e, infatti, mi accorgo di parlare con te). Non ho molti altri fatti da raccontare, non ricordo molti aneddoti di un’amicizia fatta di poche frequentazioni, ma di grande intensità. Non so quasi niente delle vicende del tuo coro. C’ero anch’io alla fondazione, nel ’63 (“Il prossimo anno – mi hai detto sul letto d’ospedale – il coro fa cinquant’anni. Bisognerà pensare a qualcosa…”) quando la divisa era davvero originale: pantaloni di velluto e camicie scozzesi di flanella, quella che punge la pelle, e che ora, forse, non fanno più. Poi sono “emigrato” per qualche anno; poi sono tornato e ho cantato ancora per un po'; poi sono andato a Milano a lavorare (via alle sette del mattino e a casa alle otto di sera); e il coro mi si è perso nella nebbia, più che altro per mia pigrizia e pavidità. Quindi non posso dire niente dei suoi concerti, dei suoi giri per l’Europa o addirittura oltre Atlantico… in America.

Lo seguivo da lontano, come una piccola gloria varesina, come uno dei protagonisti della storia musicale della città, proprio come la tua famiglia (il grande vecchio, il tuo papà, il giovane Gabriele che ne ha preso il testimone all’organo di San Vittore, come tua figlia Chiara…) inserito nelle radici buone di una Varese all’apparenza silente, ma in verità ricca di musica, con il suo Liceo, con i concerti sparsi durante tutto l’anno nelle sue sale e nelle sue ville, culla persino di un raro e raffinato revival musicale futurista. Ma tu non mi sei scomparso nella nebbia, anche se di te non posso svelare nessun segreto, se non che disdegnavi il pecorino. Proprio così: me lo rivelasti quando venisti con la Rita a trovarci in Toscana. Dopo un bel pranzetto: “E adesso, Lino, ci facciamo una fetta di pecorino di Pienza”. “Per carità, non lo sopporto. Sono praticamente allergico!”. Fa niente: ci siamo ugualmente rifatti in varie tappe successive con crostini, tortelli, maccheroni, zuppa di pane, ribollita, fiorentine, tagliate, trippa, brunello, morellino, monteregio, vinsanto, cantuccini, sotto le fronde di un pergolato… Perché tu, autodidatta della vita, hai amato la vita nelle sue forme più semplici e più sante: la famiglia, l’amicizia, il convivio, e soprattutto insegnando a cantare. E a cantare in coro, la forma più bella: “Ascoltatevi uno con l’altro! Sentitevi! Si canta insieme, non si grida ognuno per conto suo! Piano… e adesso su, su, forte!… ssst, giù giù, pianissimo… Insieme!” Sarò politicamente scorretto, Lino; lo confesso soltanto a te, sottovoce, a un orecchio: che bello essere, come nel coro, un gregge di pecore! Di modeste, umili, miti, obbedienti pecore. Che bello imparare, apprendere, assorbire. Che bello seguire un maestro! Che bello, poi, essere pecore docili quando c’è un certo Pastore a guidarle e a indicare la via. Quella via che porta alla speranza contro ogni speranza, come mi hai detto tu non molto tempo fa. “Si vede il Monviso. Si vedono tutte le Alpi. Che inverno strano. Che inverno bello, ma stupido. Certo che un po’ di neve…”. Mi dicevi così, il busto sollevato sul letto, guardando il panorama dalla grande finestra del quinto piano dell’ospedale: cielo azzurro del meriggio e montagne dorate. “È vero, Lino. Siamo ai primi di gennaio ed è un inverno stupido: non piove, non nevica, c’è il sole da due mesi, e fuori non fa nemmeno freddo”. “Già, è un inverno fuori posto. Certo, un po’ di neve…” Ho ripensato a queste tue parole: “E’ un inverno fuori posto”; qualcosa contronatura, qualcosa di strano, non importa se bello o brutto; qualcosa di stonato, qualcosa di ingiusto, insomma. Come la morte, caro, caro Lino. È stonata. Non canta in coro. Non siamo fatti per lei. Non siamo fatti per il dolore, che tu hai provato, eccome! È ingiusto morire! Non è un grido di rabbia; è la voce di una speranza, una certissima speranza contro ogni speranza, come tu hai detto. Perché Qualcuno ci ha promesso qualcosa. Perché Qualcuno ci ha promesso che tutto è nostro, la vita, la morte… A questa promessa, così grande da superare anche il nostro più inaudito desiderio (ricordi? l’hai pregato tante volte anche tu: “concedi al tuo popolo di desiderare ciò che prometti”!); a questa promessa tu hai creduto e ora essa è tutto quello che tu sei, tra le braccia del Padre. Da quel giorno che, per salutarti, l’inverno ha smesso di fare lo stupido, e Varese si è riempita di neve.

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