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Politica

PALLA AL CENTRO

MASSIMO LODI - 21/10/2016

ReferendumSecondo recenti sondaggi, il 36 per cento di iscritti/simpatizzanti Pd è pronto a votare no al referendum costituzionale. In termini assoluti, vuol dire il 12-13 per cento del totale degli elettori (salvo astensioni). Sommato al 4-5 per cento rappresentato da quanti, a sinistra dei Democrats, compiranno analoga scelta, dà un valore complessivo del 16-17 per cento, ovvero ciò che raccolse il Pds – successore del vecchio partito comunista – quando si votò nel ’92 con la proporzionale.

Conseguenze (qualche ipotesi, forse  non peregrina).

1) Se dovesse maturare la scissione dentro il Pd, l’anima di sinistra, risintonizzandosi con i sodali della tradizione, costituirebbe una forza degna di rilevanza. E tuttavia probabilmente ininfluente sulle sorti del Paese. A meno che non si pensi che abbia possibilità d’intesa con i Cinquestelle, da sempre dichiaratamente ostili a un patto interpartitico qualunque esso sia, e tanto più con un partner di segno ideologico sgradito a molti di loro (lì dentro c’è tutto e il contrario di tutto: specialmente il contrario). Dunque non sembrerebbe conveniente una fuoruscita di bersaniani, dalemiani, cuperliani et similia, pur se i personalismi a volte non obbediscono alla testa e invece alla pancia.

2) Il segretario del partito e premier conosce l’irrealismo dell’ipotesi. Però i fatti che ogni giorno si succedono lo inducono a pensare che la frattura apertasi sia irrimediabile. Che cosa ne deduce Renzi? Che è tanto più necessario chiedere voti a destra per far passare il referendum. Che le richieste di modificare la legge elettorale sono più strumentali che fondate. Che saranno altri, e non lui, a prendersi la responsabilità dell’eventuale nascita d’un futuro ed effettivo Partito della Nazione o chiamiamolo al modo che ci pare. Cioè la riproposizione del retaggio democristiano in forma nuova, e però sostanzialmente figlia del suo storico dna.

3) Il centrismo era e rimane funzionale agli equilibri politici, se non fondante dei medesimi. Può piacere o non piacere, ma i fatti raccontano che ha determinato palesemente le sorti della Prima Repubblica, indirizzato sotto mentite spoglie quelle della Seconda, e sta influenzando con evidenza l’evolversi della Terza. Il centrismo non è una semplice categoria della politica, bensì un’espressione dello spirito nazionale. Un brand, direbbero i contemporanei à la page, del moderatismo prevalente. Un’eredità che la maggioranza degl’italiani – non necessariamente conservatori, e invece anche progressisti – ritiene di pregio anziché no. Ne è prova la fresca predilezione dichiarata dagli appena citati Cinquestelle per il sistema di voto proporzionale, pilastro elettorale dal dopoguerra agli anni Novanta, e poi sostituito con un semi-maggioritario che ha peggiorato la situazione invece di migliorarla.

Conclusione. È ovvio, e perfino doveroso, che il leader del Pd e presidente del Consiglio tenga conto d’una situazione di così chiaro profilo e si regoli in base ad essa. Ovvero: non sarà lui a scegliersi gli alleati con cui proseguire nel cammino, se prosecuzione ci sarà e non verrà mandato a casa. Lascerà che siano i suoi rivali interni a costringerlo all’operazione, inconsapevoli del male che procureranno a se stessi credendo di agire per il bene. Ma per il bene di chi?

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