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Società

EXPORT FORCHETTARO

GIOIA GENTILE - 21/10/2016

fuocammare

Samuele di “Fuocoammare”

Scena: Samuele, suo padre e sua nonna sono a tavola davanti a tre piatti di spaghetti. Samuele ha 11 anni e risucchia rumorosamente ogni forchettata. Il padre e la nonna, benché siano in grado di mangiare civilmente, non si sognano neppure di riprenderlo. Questa è la scena che più mi ha irritato nel film di Gianfranco Rosi “Fuocoammare”, premiato quest’anno con l’Orso d’oro al Festival di Berlino e candidato all’Oscar come miglior film straniero. D’accordo, è un dettaglio  risibile nel contesto serio e drammatico del tema trattato, ma non è stato l’unico motivo di fastidio.

Devo subito chiarire che non ho le competenze di un critico cinematografico e che quanto sto per dire sono semplicemente le mie impressioni. Il film è andato in onda su Rai 3 il 3 ottobre ed ho atteso a scrivere queste righe per poter prendere le distanze dalle prime sensazioni e potermi esprimere col necessario distacco, ma devo riconoscere che non ci sono riuscita.

Mi aspettavo di vedere un documentario sui migranti a Lampedusa, invece le riprese degli sbarchi e del lavoro dei soccorritori si alternano a scene relative alla vita quotidiana del bambino di cui sopra e all’ambiente in cui vive. Non c’è collegamento né rapporto apparente tra i due momenti, che si succedono con stacchi improvvisi. Cosicché per tutto il film, invece di concentrarmi sulla realtà drammatica dell’immigrazione, ho continuato a chiedermi quale fosse il senso di quella scelta narrativa. Alla fine ho capito! Forse. Samuele simboleggia tutti noi: all’inizio della storia è insensibile, va a caccia di uccellini e li abbatte con la fionda che si è costruito; ha un occhio pigro, dunque non riesce a vedere bene la realtà. Poi però, grazie all’intervento del dottore, non a caso lo stesso che cura i migranti, comincia ad usare anche quell’occhio, comincia a vedere le cose come sono; così va alla ricerca degli uccelli non per ucciderli ma per carezzarli delicatamente. Di altri personaggi, tuttavia, non sono riuscita a capire la funzione (la signora Maria, il dj di una radio locale, un sub che un paio di volte va ad esplorare il fondo del mare). Forse non ne hanno alcuna, forse contribuiscono solo a dare l’idea di come si svolge la vita sull’isola, del tutto separata dal dramma dell’immigrazione. Ma è davvero così? Non mi pare che i Lampedusani vivano ignorando tutti coloro che ogni giorno approdano alle loro coste. Oppure l’indifferenza che mostrano nel film vuol essere, anch’essa, il simbolo di un’Europa che si gira dall’altra parte?

Questo taglio simbolistico mi è parso un puro esercizio intellettuale che toglie drammaticità all’evento centrale, costringendo lo spettatore a chiedersi non quali sono le cause e gli effetti di un esodo biblico come quello che stiamo vivendo, ma che cosa il regista abbia voluto dimostrare. (Molto più interessante e coinvolgente il servizio andato in onda subito dopo, sullo stesso argomento.)

Tutto ciò mi ha irritato. Non discuto la qualità artistica del film, per altro – sembra – molto apprezzato anche al New York Film Festival, ma mi chiedo quale sarà la reazione dello spettatore comune, come me, di fronte ad un’ impostazione cervellotica e difficile da decodificare.

E – scusate l’insistenza su un elemento secondario –  per tornare alla scena degli spaghetti, che mi è parsa del tutto gratuita, quale immagine dei Lampedusani, e degli Italiani in genere, giungerà all’estero? Già ci definiscono “spaghetti” e “mafia”. Che bisogno c’è di fornire altri elementi di critica e di dileggio?

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