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Politica

REFERENDUM/2 OPPORTUNITÀ DI CAMBIARE

MANIGLIO BOTTI - 27/10/2016

referendumLa data del 4 dicembre, giorno di santa Barbara, festa degli artiglieri e dei vigili del fuoco, quando si voterà per la conferma o no della riforma costituzionale proposta dal parlamento, si sta avvicinando con un’attesa che non è pari nemmeno a una finale di Champions.

Non passa giorno, da più di un mese, e così si andrà avanti fino all’ultimo, che i giornali non dedichino all’evento tre o quattro pagine di commenti vari e che soprattutto sui social ci si produca in conflitti verbali non tutti improntati al galateo. L’Italia è divisa e mai lo è stata così fino a ora: forse per trovare una data di paragone si dovrebbe risalire di quarantadue anni, al 12 maggio 1974, quando si votò per la conferma della legge sul divorzio o per la sua abrogazione o, addirittura al 2 giugno 1946, quando i cittadini italiani scelsero la forma istituzionale di governo: o monarchia o repubblica.

Non è una divisione che fa bene al paese. È una spaccatura che ci sta logorando. E stupisce che alcuni giuristi, tra i più noti, abbiano richiesto alle Corti per svariati motivi un rinvio anche per una “pausa di riflessione”. Se così accadesse presto ci daremo di morso l’un altro.

È sbagliata questa spaccatura, questa divisione dove l’una parte accusa l’altra di apocalittiche conseguenze, qualora vincessero i Sì o i No? È sbagliata. E fa male a tutti. Anche se purtroppo, al punto in cui si è giunti, non se ne può più fare a meno di incattivire il confronto. La ragione principale è quella secondo cui l’esito del referendum, da tempo e con buona parte di colpa anche del principale proponente – il presidente del consiglio –, non sarà tanto legato alla riforma, al fatto se sarà buona o no, ma al mantenimento in carica del governo stesso. E nella circostanza – secondo il detto “piove governo ladro”, facilmente attribuibile a ogni paese e non solo all’Italia – è quasi normale e inevitabile che ciò accada. Ma la colpa iniziale di presunzione del presidente è anche un po’ attenuata dal fatto che le cose, se andranno come lui non auspica, i primi a metterlo in croce sarebbero stati – e lo saranno – gli oppositori di tutte i colori politici, tanto il fronte del No è composito e variegato.

Ma tornando all’essenza della riforma, è necessario anche che chi scrive – per non dare atto a equivoci – dica come la pensa. Non entro nel merito dei tecnicismi, perché nelle scorse settimane in questo stesso giornale già molti si sono cimentati, elencando i pro e i contro con analisi sempre interessanti e più approfondite. Mi limito a fare mia l’affermazione dell’anziano ma saggio ex-ambasciatore e giornalista Sergio Romano, che ogni giorno si confronta con i lettori dalla pagina delle lettere del Corriere della Sera: dirò sì alla riforma perché la considero utile al paese.

Dopo anni di chiacchiericci, di tentativi, di proposte più o meno realizzabili, cioè senza che l’Italia tramutasse la sua vera natura di paese unito così come nato nel 1861, quindi lontano dalle varie devolution, e come poi s’è ordinato nel 1948, ci si trova dinanzi a una proposta organica, più o meno condivisibile, certo, ma non presa incidentalmente dato che il presente governo – e anche il precedente, in verità – s’era costituito con l’obiettivo delle “grandi riforme”. Una riforma perché anche così si può modernizzare, cambiare, adeguarsi ai tempi.

C’è pure la possibilità che tutto ciò non avvenga. Siamo in Italia, purtroppo, e molte polemiche sulla riforma nascondono spesso la volontà di salvaguardare i propri orticelli, politici o no, a svantaggio dell’interesse comune. Ma tanto vale provarci. Con serenità e anche con coraggio. Se ciò non accadrà non ci sarà l’apocalisse. Non cascherà il mondo. Semplicemente si andrà avanti come prima. E magari peggio perché presto ci si potrebbe rendere conto di avere perso un’occasione.

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