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Attualità

GL’INGLESI E NOI

GIANFRANCO FABI - 11/11/2016

brexitUn tempo si attribuiva agli economisti il paradigma secondo cui non c’è cosa complessa che non si possa complicare ancora di più. Ora forse il giudizio va aggiornato: non c’è realtà politica complicata che un inglese non possa rendere ancora più inestricabile.

I fatti degli ultimi mesi lo dimostrano molto bene. Dapprima c’è stata l’indizione di un referendum sull’Europa, che non era per nulla obbligatorio, per mettere alla prova il consenso verso il partito conservatore di David Cameron che era tranquillamente al Governo. Poi c’è stato il voto popolare che ha ribaltato le sicurezze del premier e i sondaggi della prima ora e dove gli elettori hanno deciso che la Gran Bretagna dovesse lasciare l’Unione europea senza che nessuno si peritasse di spiegare razionalmente ai cittadini quanto fosse difficile, complessa e soprattutto pericolosa la strada della separazione.

Quindi ci sono state le inevitabili dimissioni di Cameron e l’ascesa alla poltrona di primo ministro di Theresa May, una persona di grandi ambizioni e di poca visione politica subito stretta tra i fautori di un’uscita rapida e radicale e i sostenitori di una linea morbida per salvaguardare gli interessi economici (e i posti di lavoro) nel paese.

Non sapendo quale strada prendere, la May ha adottato la linea del rinvio annunciando che solo nove mesi dopo il voto, a quindi alla fine marzo dell’anno prossimo, avrebbe dato avvio ai negoziati con Bruxelles e gli altri paesi europei.

La May pensava di poter andare tranquillamente per la propria strada, anche se non sapeva ancora quale, quando ci si è messa di mezzo la Corte suprema inglese la quale ha stabilito che, dato che il referendum era solo consultivo, la decisione di avviare i negoziati per l’uscita dall’Europa deve richiedere anche un voto del Parlamento.

Fulmini e saette. Dapprima la May ha annunciato un ricorso all’Alta Corte e poi ha minacciato i parlamentari perché non si esprimano in contrasto con la volontà popolare.

Intanto, anche se per la separazione ci vorranno comunque alcuni anni, già si cominciano a vedere gli effetti. La sterlina ha perso in poche settimane il 20% del suo valore, le grandi banche hanno annunciato il blocco degli investimenti e futuri spostamenti del personale, le prospettive di crescita sono state drasticamente ridimensionate. Qualche effetto positivo in verità c’è stato: il turismo e le esportazioni hanno avuto una spinta dalla svalutazione della moneta. Ma la storia economica insegna che le svalutazioni portano benefici immediati, ma provocano un aumento dei costi delle importazioni e un deprezzamento del valore degli investimenti all’estero, fattori che nel medio periodo non possono che pesare più dei vantaggi immediati sugli equilibri economici.

E peraltro dal profilo politico l’obbligo del passaggio parlamentare per il via alla Brexit ha dato fiato alle rivendicazioni di un’analoga procedura da parte delle altre tre componenti del Regno Unito, cioè del Galles, dell’Irlanda del Nord e soprattutto della Scozia. Quest’ultima, che ha votato in larga maggioranza per restare in Europa, ha già parlato esplicitamente di un nuovo referendum per proclamare l’indipendenza, separarsi da Londra e rimanere così con un legame privilegiato con l’Europa.

Quello che emerge con sempre maggiore evidenza è che il voto popolare del 23 giugno ha visto la vittoria del no per un insieme di fattori gran parte dei quali estranei all’argomento strettamente in discussione. Sul no si sono concentrate le proteste contro il Governo, contro l’immigrazione, contro le difficoltà economiche. Il no quasi come un monito, non certo come una soluzione.

Qualche parallelo si potrebbe trarre anche con il voto italiano del prossimo 4 dicembre per il quale in molti casi la propaganda fa leva solo sui facili slogan a prescindere dal reale contenuto della riforma.

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