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Presente storico

REFERENDUM/ 3 NORMALITÀ DELLO SCEGLIERE

ENZO R. LAFORGIA - 02/12/2016

coda

In coda per il referendum monarchia repubblica

Siamo tutti in trepidante attesa del voto del prossimo 4 dicembre. E quanto più si avvicina il giorno in cui i cittadini italiani, con un «Sì» o con un «No», si pronunceranno a favore o contro la riforma costituzionale proposta dal Governo e dal Parlamento, tanto più forti si fanno le voci dei profeti che annunciano l’apocalisse: «Comunque vada il referendum, avremo un Paese spaccato a metà!»; «Il Paese è diviso in due!»; «La riforma costituzionale ha spaccato il Paese!».

Ora, quando sento tali profezie, confesso che un brivido mi corre lungo la schiena. Mi viene sempre in mente la figura di fra Cristoforo, che, nel sesto capitolo dei Promessi sposi, «postandosi fieramente sul piede destro, mettendo la destra sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso», si rivolge a don Rodrigo prospettandogli chissà quali sciagure e disgrazie, condensate tutte nella allocuzione solenne: «Verrà un giorno…».

Poi, però, lasciato scivolare via il brivido e riposto il volume manzoniano, mi viene da pensare…

Mi viene da pensare e mi sembra del tutto normale che un Paese si divida nel momento in cui si tratta di scegliere tra due posizioni!

Ma i profeti già prevedono che la differenza tra i sostenitori del «Sì» e quelli del «No» sarà minima. E, di conseguenza, il Paese risulterà irrimediabilmente separato in due inconciliabili fazioni. Per sempre…

Per carattere, formazione e cultura, tendo a diffidare dei profeti. Preferisco affidarmi alla storia, la quale, benché, com’è noto, non serva a nulla, ci offre la possibilità di osservare come se la siano cavata i nostri antenati dibattendosi in situazioni analoghe a quelle nelle quali ci agitiamo confusamente noi oggi.

«Governo, partiti, Comitati di Liberazione rivolgono, in questi giorni, appelli agli Italiani perché la lotta elettorale non decada in rissa. […] L’apprensione di intolleranza si va diffondendo; la tèma di violenze va serpeggiando».

Altro che qualche ridicola scaramuccia televisiva, tra personaggi che sembrano avere più dimestichezza con lo spettacolo che con la politica! Il «Corriere Prealpino» del 18 maggio 1946 informava i suoi lettori, per tramite del suo direttore Federigo Noe, che con l’approssimarsi del voto del 2 giugno si stavano moltiplicando in tutta la penisola episodi di violenza e cresceva di ora in ora la paura per il “dopo-voto”: «Voci corrono di “preparativi”, di “attese”, di “irrequietezze” e si gonfiano, da bocca a bocca, in boati. E tutto questo crea la “psicosi”; eccita; irrita; conturba».

Quella campagna elettorale, in effetti, si svolse in un clima di straordinaria eccitazione, in un contesto segnato dalla disoccupazione, da un precario ordine pubblico, dal razionamento alimentare, da una grande disponibilità di armi, dalla presenza sul nostro territorio delle truppe di occupazione, dalla difficile trattativa di pace intrapresa a Parigi, dalle macerie della guerra, morali e materiali, non ancora rimosse. La «paura della Repubblica», come titolava un editoriale di Mario Borsa sul «Corriere d’informazione» del 3 maggio 1946, la paura del «salto nel buio», era alimentata ovviamente dai monarchici, ma anche dai fascisti e dai cattolici. Ma quella stessa inedita repubblica, per altri non poteva avere alternative: «o la Repubblica, o il caos», dichiarò Pietro Nenni.

La campagna elettorale sterzò bruscamente verso lo scontro aperto e violento il 10 maggio, all’indomani dell’abdicazione del re Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto. Numerosi incidenti si registrarono in molte città, soprattutto nelle regioni meridionali.

La situazione era così incandescente, che il 18 maggio fu reso noto un comunicato con cui il ministro dell’Interno Giuseppe Romita invitava tutti alla moderazione. Il ministro, di fede repubblicana, si dichiarò in quei giorni preoccupato per il tono usato dalla carta stampata, che contribuiva ad alimentare l’eccitazione generale (le memorie di Romita furono pubblicate un anno dopo la sua morte, nel 1959, in un volume dal titolo Dalla monarchia alla repubblica). Sempre il 18 maggio, i Carabinieri, di lunga fede monarchica, fecero sapere che avrebbero rispettato la volontà popolare così come sarebbe risultata dal voto del 2 giugno.

Il giorno prima, il 17 maggio, sul quotidiano varesino era stato pubblicato il testo dell’accordo sottoscritto da tutte le forze politiche e dal Cln della provincia di Varese «Per la legalità delle elezioni e il mantenimento dell’ordine pubblico».

La Chiesa, in quella circostanza, si mostrò più preoccupata per un’eventuale deriva laica dello Stato italiano che per la scelta tra Repubblica e Monarchia. Il 28 maggio, il «Luce!», giornale fondato dal sacerdote malnatese Carlo Sonzini, così esortò i suoi lettori:

«È imminente il giorno 2 Giugno che deve decidere per molti e molti anni le sorti della Patria. Lettori, prima di votare, entrate in Chiesa o raccoglietevi in preghiera in casa vostra dinanzi al Crocifisso, e dite a voi stessi: posso io votare per coloro che a parole protestano il più assoluto rispetto alla religione, mentre i loro capi non hanno mai sconfessato il loro Maestro Carlo Marx, negatore di Dio e d’ogni fede; anzi vogliono essere a lui fedelissimi? […] Socialcomunisti, azionisti e tutti gli altri vogliono lo stato laico, che vuol dire misconoscimento dell’autorità della Chiesa e allontanamento di Essa dalle pubbliche istituzioni, a cominciare dalla Scuola; vuol dire facoltà di stabilire leggi in contrasto cogli insegnamenti evangelici, quale per esempio quella del divorzio, ecc.»

Come andò a finire, è noto. L’Italia diventò Repubblica. Ma tale opzione si affermò con un margine non così netto e straordinario: 12.717.923 voti per la Repubblica contro i 10.719.284 voti per la Monarchia. La maggioranza repubblicana doveva fare i conti con la grande minoranza monarchica.

«Nelle giornate successive al 2 giugno, di fronte alle cifre ufficiali diramate dal Ministero degli Interni, di fronte alla maggioranza repubblicana e alla grande minoranza monarchica, ci si rese conto che la situazione era pericolosa. Se ne rese conto il Governo e ne rese conto il re. Perché, se la maggioranza fosse stata schiacciante, non ci sarebbe stata discussione. […] Ma la minoranza era così alta, così vicina al pareggio, così superiore alle aspettative, che molti monarchici, forse, per la prima volta, pensarono che la Monarchia avrebbe potuto vincere, se essi avessero avuto più fiducia. Il sospetto rese ancora più dura la sconfitta.»

Rubo queste righe ad una bella inchiesta di Luigi Barzini jr., pubblicata sulle pagine del «Corriere della Sera» dal 2 al 9 gennaio del 1960 (oggi è possibile trovarne anche un’edizione in volume con il titolo La verità del referendum). Tra attese, polemiche, scontri e ricorsi, il 10 giugno la Corte di Cassazione certificò la vittoria della Repubblica, dichiarando, al contempo, che in una seduta successiva avrebbe emesso il giudizio definitivo su ricorsi e contestazioni. «Era nata o non era nata, ufficialmente, la Repubblica?», si chiedeva Barzini.

Ecco, io credo che, comunque andrà a finire quest’ultima nostra battaglia elettorale, che dovrà decidere se conservare la nostra vecchia Costituzione (che però è stata revisionata 25 volte dal 1948 al 1999!) o accogliere la proposta che mira a riformarla profondamente, comunque andrà a finire, non sarà un «salto nel buio», non sarà il preludio alla bancarotta del nostro Paese. La cosa forse più terribile che ci toccherà sopportare non sarà l’impennata dello spread o la crisi di governo o la nascita di una dittatura. Ci toccherà invece subire, per settimane e mesi, l’estenuante maratona televisiva durante la quale i nostri modesti rappresentanti politici si esibiranno in meravigliose acrobazie argomentative. Perché, state pur sicuri, alla fine il nostro Paese non risulterà diviso né spaccato. Perché tutti avranno comunque vinto.

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