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Politica

FASE NUOVA

GIUSEPPE ADAMOLI - 23/12/2016

Il Parlamento dibatte sull’Italicum

Il Parlamento dibatte sull’Italicum

Tutti d’accordo che il 4 dicembre si è chiusa una fase politica e se ne è aperta un’altra. Su ciò che significhi tutto questo la controversia è aperta e aspra. A mio avviso è anzitutto finita l’epoca dei tentativi delle grandi riforme costituzionali (2001, 2006, 2016). Le Istituzioni che abbiamo, per quanto arcaiche o polverose, saranno purtroppo la cornice entro la quale operare. Al massimo saranno possibili alcuni piccoli aggiustamenti.

La prima Repubblica aveva terminato la sua parabola con la dissoluzione, o quasi, dei partiti storici. La Seconda si era aperta con una nuova legge elettorale, il cosiddetto Mattarellum dal nome di Sergio Mattarella che lo aveva proposto: collegi uninominali, 75% di maggioritario con il 25% di proporzionale per garantire un “diritto di tribuna” ai partiti più piccoli. Dopo il risultato del referendum sarebbe già buona cosa che si ripartisse da quel punto e non dal proporzionale puro che causerebbe molte difficoltà ad una seria governabilità del Paese. Ma questo comporta che tornerà la spinta alle ampie coalizioni elettorali sia per la Camera che per il Senato.

Se le cose stanno davvero in questo modo Il problema investe pesantemente sia il centrosinistra che il centrodestra con la ristrutturazione dei rispettivi campi posto che il M5S non si coalizzerà con nessuno pena il venir meno della sua carta vincente che è stata fin qui la contrapposizione frontale a tutte le forze politiche.

Cosa potrebbe accadere nel Pd che è la forza principale di governo sia a livello centrale che nei territori? Il dibattito è principalmente sulla strategia da adottare con la galassia della sinistra. Molto gettonata è l’alleanza con una sinistra (Pisapia, ex sindaco di Milano) disposta a collaborare col Pd ed anche con determinate porzioni di centro. Penso invece che la discussione prioritaria debba riguardare il rapporto con le forze sociali. Il Pd ha forzato sulla strada della cosiddetta “disintermediazione” con la riduzione della centralità dei corpi intermedi soprattutto di matrice sindacale. Tutto ciò era necessario per superare i riti della concertazione fra governo e rappresentanze sociali (in pratica l’ammissione dei veti) e gli stessi sindacati ne hanno tratto giovamento in termini di aggiornamento metodologico e culturale.

Si era andati però oltre il limite ritenuto accettabile dai ceti medi e popolari. L’immagine di Marchionne artefice dello sviluppo economico mentre i sindacati (in particolare la Cgil) lo frenavano non si è dimostrata affatto premiante per il governo sul piano elettorale. Lo stesso Renzi aveva corretto questa linea già prima del 4 dicembre riconoscendo che i corpi intermedi sono necessari per stabilizzare le Istituzioni. Da ciò era derivata una forte ripresa delle relazioni con i sindacati che ha portato alla stipula del contratto del pubblico impiego, ad una prima intesa sulle pensioni e favorito la firma di una serie di importanti contratti privati: risultati che non hanno avuto il meritato spazio mediatico solo perché tutta l’attenzione era concentrata sul referendum.

Molti osservatori affermano che la ripresa di questa positiva prospettiva è minata dal referendum sul Jobs Act del prossimo mese di aprile. Presto per fare previsioni. È auspicabile che i sostenitori del Jobs Act (fra i quali mi annovero) trovino delle intese con le forze sindacali e sociali. È la chance migliore anche per queste ultime che altrimenti potrebbero essere schiacciate dal Movimento di Grillo che si attribuirebbe il principale merito dei voti contro la nuova legge sul lavoro.

L’Italia tripolare interroga anche loro e non solo i partiti. Un’altra novità che nessuno può sottovalutare della fase che si è appena aperta.

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