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Editoriale

POLVERE

MASSIMO LODI - 13/01/2017

Guttuso dipinge la Fuga in Egitto al Sacro Monte

Guttuso dipinge la Fuga in Egitto al Sacro Monte

Guttuso, trent’anni dopo. Quasi ce lo siamo dimenticato, a Varese. Un viottolo in suo nome, però senza numeri civici, vicino all’atelier di Velate. Poi un viale più ampio e sterrato, protetto dalle ombre di anonime piante, da piazza della Motta ai musei civici. Ricordi sfumati delle contese per l’eredità e delle aspettative locali. Memoria sbiadita di un’epoca lontana/vivace, per certi versi e ogni tanto travolgente. Condivisione scarsa, quasi nulla, di quelle tracce. Di quell’attivismo. Di quei risultati. Eppure era storia, è storia. Ma quanti lo sanno, e la sanno?

Guttuso morì nella casa di Roma: 18 gennaio ’87. Poche ore prima il cardinale Angelini aveva celebrato una messa al suo domicilio. Presenti Tatò, il segretario di Berlinguer, e Andreotti, il segretario della democristianità. Una benedizione cattolica, un omaggio laico, un inchino spontaneo/doveroso. In fondo il maestro rappresentava la sintesi spesso cercata e non sempre raggiunta: l’arte che si concilia con il potere, il potere che scopre una vena di spiritualità, la spiritualità che non pone domande, limitandosi ad accogliere risposte. Tutte le risposte. Anche la conversione in articulo mortis d’un comunista, ammesso che di conversione per davvero si trattasse.

Varese partecipò alla commozione del Paese. Anzi, lo precedette nell’emozionarsi. Era riconoscente/grata al pittore siciliano che aveva scelto gli sfolgorii cromatici dei tramonti prealpini per ispirarvi rappresentazioni paesaggistiche. Sfolgorii appassionati, intensi, perfino ardenti. Forse non proprio prealpini. O forse sì: lui li aveva saputi interpretare meglio di noi. Seppe anche capire prima di noi, quando l’arciprete del Sacro Monte monsignor Macchi gli propose di realizzare l’acrilico di fianco alla terza cappella, ch’era il momento di rompere gli schemi vecchi. Addirittura antichi. E di metterci del nuovo, sull’acciottolato carissimo all’Aguggiari e accanto alle sculture del Bernascone.

Raffigurando la Fuga in Egitto, immerse il pennello/l’anima nel secchio della globalizzazione che sarebbe venuta dopo: tinte del passato lontano e del futuro prossimo. Tinte che integravano mondi diversi, il mondo del sud e quello del nord. Dell’Occidente e dell’Oriente. Tinte affratellanti. Tinte sgradite a una quota dei contemporanei (anche dei posteri), contrari all’amalgama tra opere del Seicento e del Novecento (pure all’amalgama tra civiltà differenti). L’arciprete lo difese. Idem il sindaco Gibilisco. Quasi tutta la società politica, una gran parte della società civile. Finimmo per concedergli -per concederci, sarebbe meglio dire- una mostra a Villa Mirabello e la cittadinanza onoraria. Lui ebbe parole di dolcezza/entusiasmo, depositate nei nostri annali: “Dipingere è bello, dipingere a Varese è una cosa meravigliosa”.

Fu un felice momento di localismo condiviso. Di recupero della tradizione (il Sacro Monte), di sguardo al domani (si progettarono altri interventi sulla Via Sacra), di sensibilità civica (comparve l’orgoglio d’appartenenza a una comunità capace di pensare in grande. Di sognare). S’intuì che quello scatto culturale sarebbe dovuto essere l’avvio d’una lunga corsa, che però finì nel giro di poco tempo: cademmo nell’equivoco che fosse l’arrivo, non la partenza, e c’impiantammo. Sulle mani dei sopravvissuti a quel tempo, sono rimasti solo residui di tenue colorazione, come quando una farfalla sfugge dalle dita lasciandovi sopra una lieve polvere di sé.

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