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Politica

TUTTO SCORRE

MANIGLIO BOTTI - 13/01/2017

Il governo Gentiloni

Il governo Gentiloni

Si racconta che il poeta e scrittore Alfonso Gatto, che nei primi anni del dopoguerra lavorava in un giornale con il giovane Enzo Bettiza, gli domandasse: cosa stai scrivendo con così tanto accanimento? Un romanzo, rispose Bettiza… Ah sì? E quando lo finirai? E Enzo Bettiza rispose: tra un anno, forse due. Alfonso Gatto se ne andò bofonchiando: un anno, due anni… Quanti vivi? Quanti morti?

Il tempo è un’entità imponderabile, misteriosa. Mentre si vive si invecchia, e un istante anche piccolissimo non è mai identico al precedente. È già trascorso più di un mese da quel fatidico – o così doveva essere – 4 dicembre 2016, quando l’Italia, a seguito del voto referendario su una proposta di modifica della Costituzione, sembrava stesse per sottoporsi a un giudizio divino: entrambe le fazioni, sia quella che spingeva per il cambiamento sia quella che recalcitrava – e che poi vinse il confronto con ampio margine – ipotizzavano catastrofi: subito elezioni anticipate in ogni caso, ma con una legge elettorale bene acconcia; nuove riforme da attuare nel giro di pochi mesi già pronte nel cassetto, e non quella pasticciata, orribile e anche antidemocratica che il governo aveva proposto tramite il parlamento; timori di catastrofi dall’una e dall’altra parte; ribaltoni e vendette politiche come mai s’erano visti nel passato… Ma in un paese dove da sempre vige il motto longanesiano “tengo famiglia”, almeno questo doveva indurci a qualche riflessione.

Orbene, a poco più di un mese da quella svolta – o che in un modo o nell’altro doveva assomigliare a una svolta finalmente apocalittica ci si guarda intorno e si vede il deserto, un deserto sopraffatto dal silenzio. Di una nuova legge elettorale, ormai, pochi parlano in concreto. Giustamente si è in attesa di una decisione della Corte costituzionale che, però, appunto giudica della costituzionalità delle leggi, e non si dovrebbe sostituire al parlamento che invece le leggi le fa.

Anche riguardo a questo parlamento “delegittimato”, cioè di nuove critiche, di nuove polemiche si sento poco parlare. Nuove riforme costituzionali neanche parlarne. In un paese scopertosi all’improvviso popolato da una quarantina di milioni di emeriti presidenti della Consulta, e tutti che custodivano e presentavano un progetto di revisione “condiviso”, le feste natalizie hanno letteralmente fatto tabula rasa.

Il governo e il presidente della Repubblica. Anche coloro i quali prevedevano il caos, nel caso di una sconfitta della proposta referendaria, e non erano pochi, si sono dovuti rimangiare tutto. In quattro e quattr’otto Sergio Mattarella ha cavato fuori dal cilindro un nuovo presidente del consiglio che ha costituito un governo quasi uguale al primo, ovvero “antequattrodicembre”. Proprio uguale uguale no, alla guida, invece di Matteo Renzi, il bimbo di Firenze, c’è il conte Gentiloni da Roma, e la differenza tra i due è rilevante: un giocatore di calcetto il primo (Renzi), e un più riflessivo giocatore di burraco il secondo (Gentiloni). Poi qualche minuscola operazione di maquillage: Alfano dall’interno agli esteri; e all’interno un uomo del Pd, che un po’ quel dicastero ce l’ha sempre avuto nel sangue, Minniti, e poi una fotocopia… Anche la bella e battagliera “Camilla”, cioè la signora Maria Elena Boschi, che per la riforma si sarebbe fatta socia dell’Avis a vita, uscita dalla porta come ministra delle riforme è rientrata dalla finestra come sottosegretaria alla presidenza del consiglio. Renzi a casa a meditar vendette e rientri – forse – ma era l’unica cosa che nelle circostanze poi verificatesi ci si poteva aspettare.

Su tutto il resto un amen. Almeno per ora. Pierluigi Bersani è lì a pensare a come rompere i maroni a una nuova (eventuale) segreteria del partito, perché da lì, per adesso, Renzi non s’è schiodato; Berlusconi, i Fratelli d’Italia (ah, povero Mameli: siam pronti alla morte, diceva…) fanno sporadiche uscite, e quando le fanno – almeno Berlusconi – hanno un netto carattere anteguerra; Grillo, colui che davvero potrebbe fare del parlamento futuro un bivacco per i propri manipoli, un po’ le spara grosse, un po’ rincula. Un po’, un po’ là, insomma. Come sempre.

L’Italia che n’è uscita – dopo il 4 dicembre – non è un’Italia salvata dalla catastrofe – cosa che sarebbe tutta da dimostrare – ma un’Italia vintage, un Italia dal debito pubblico che se la divora. Si leggeva qualche giorno fa sul Corriere che qualcuno addirittura potrebbe proporre la rielezione politica ed elettorale dei consigli provinciali una volta aboliti (mica decenni fa: nel 2014). I giovani che (forse) hanno votato contro Renzi, specie nel Sud, sono sempre lì in attesa di un posto di lavoro (o di un reddito di cittadinanza?). E via, avanti così.

Un mese e mezzo fa ci si scannava vivi. Adesso, messi sotto ipnosi da Gentiloni, si guarda già a una possibile – come da scadenza – consultazione elettorale nella primavera del 2018. Perché si sa, tutto scorre. Ma il tempo è medico.

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