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Cultura

MAESTRO E AMICO

EDOARDO ZIN - 13/01/2017

viottoVigilia di Natale. Era inattesa quella telefonata. Ormai avevo consegnato da una decina di giorni il mio compitino: la traduzione corretta, le citazioni riportate con rimando bibliografico, le note a pie’ di pagina, l’introduzione completata. Chi mi chiamava era lui: Piero Viotto, mio maestro e amico, che desiderava farmi gli auguri. Rimasi colpito – e lo confidai a mia moglie – dal tono di voce non più robusto e dalle sue espressioni inusuali, improvvisamente addolcitesi, quasi paterne: “Grazie ancora. Ci tenevo molto a completare quell’epistolario. Ci sentiremo dopo l’Epifania. Intanto tu contatta quell’amico: ci tengo alla sua prefazione”.

Dopo undici giorni mi arriva la notizia birbona: Piero si era addormentato durante la notte nel sonno eterno ed ora contemplava il volto del suo Signore!

Inceppato, non riuscii che a biascicare con il mio interlocutore poche parole. Succede anche questo nei rapporti umani: quando una persona, che ha segnato la tua vita, viene a mancare, non trovi nemmeno le espressioni per manifestare il tuo rimpianto. Preghi e ricordi. Metti a tacere il chiasso, fai silenzio e dai spazio a Colui che era alla porta dell’amico e bussava.

La nostra era una conoscenza antica, ma solo da una quindicina d’anni era diventata amicizia, incontro, condivisione, presenza dell’uno con l’altro. E “il professore” diventò “Piero”.

La prima conoscenza con Piero Viotto fu virtuale. Nei primi anni ’60 sostenni un esame di pedagogia fondamentale su un piccolo quanto inestimabile saggio di Jacques Maritain: “L’educazione a un bivio” appena tradotto dal francese a cura di Viotto. Fu quel saggio che mi avvicinò a Maritain e alla sua concezione dell’educazione e dell’insegnamento. Quella lettura fu l’inizio di un aggregato di frammenti di vita che mi portarono a vivere accanto al professor Viotto momenti eccezionali assieme a altri uomini, altrettanto singolari, durante gli incontri organizzati da quello straordinario cenacolo di fede e di cultura che si era formato attorno a Vittorino Chizzolini de “La Scuola” di Brescia.

Incominciarono così gli incontri di Montevelo, poi quelli di Pietralba, di Castelnuovo Fogliani, Luino, Gazzada, Tignale dove Piero Viotto ci era impareggiabile maestro. Il modello delle giornate di studio era basato su lezioni e gruppi di studio attorno alla pedagogia personalistica di Maritain: la distinzione tra pedagogia e educazione, il concetto di persona, il rapporto educativo come rapporto tra autorità e libertà, il significato dell’educare. Ciò che caratterizzava quegli incontri non era tanto la ricerca teoretica, ma la pedagogia al servizio della didattica.

Più tardi la strada percorsa insieme con il professor Piero Viotto si biforcò: io presi quella dell’insegnamento all’estero, lui diventò docente di pedagogia e successivamente fu nominato preside dell’allora istituto Magistrale di Varese.

Quando mi trasferii a Varese, ritrovai il professore e l’amicizia riprese, rinnovandosi in un presente arricchito di passato. Ci trovavamo presso l’istituto G. Lazzati e in quella sede l’orizzonte culturale si allargò: dal mondo della scuola a quello della chiesa rinnovata dal Concilio, dall’impegno dei cattolici in politica a quello del mondo dei movimenti ecclesiali. Era il tempo in cui la cristianità incominciava a vacillare sotto il peso delle contraddizioni. In quei momenti di crisi, Piero Viotto ci aiutò a ritrovare fiducia grazie ai capisaldi dell’insegnamento di Maritain: agire “da cristiani” e non “in quanto cristiani”, non essere tentati di rifiutare il tempo in cui eravamo immersi e non sostituirlo con un cristianesimo disincarnato.

I decenni dell’80 e del ’90 – occorre ammetterlo – non furono facili per il mondo cattolico varesino. Le continue riunioni, anziché aggregare, non fecero che moltiplicare l’isolamento. Io stesso, non lo nascondo, vacillavo tra la proposta ecclesiale fondata sulla parrocchia e quella dei movimenti. Fu proprio Piero, che già aveva pagato il prezzo di un torpido settarismo, ad aiutarmi a ritrovare fiducia in me stesso. Mi disse che la comunità in sé non crea persone libere, ma gregari e che la comunità è l’esatto contrario di una setta: i discepoli di Gesù non erano schiavi; la risposta alle proprie domande più nascoste e ai propri dubbi non si può trovare in chi le risposte certe le dà con spirito gregario.

Tutta la vita di Piero Viotto fu una continua, e talvolta sofferta, ricerca della Verità, che suppone unione e diversità.

Nell’età giovanile si plasmò una salda coscienza cristiana per trasformarla in uno strumento di conoscenza da trasmettere agli altri – ragazzi delle elementari o giovani universitari, non importa – attraverso l’insegnamento che non era per lui solo trasmissione di nozioni, ma proposta di valori perenni e che considerava una forma di carità, una vera e propria vocazione laicale.

Gli fu vicino un grande prete, un vero educatore: Giovanni Barra. Si nutrì delle letture spirituali di Sertillanges, Gratry, Chautard. Visse l’esperienza dei circoli della Gioventù Cattolica e della FUCI dove si preparavano gli animi liberi, pronti ad assumersi responsabilità nella nuova Italia democratica.

Divenuto docente universitario, fece parte di Scholè, il “gotha” che riuniva annualmente i pedagogisti italiani, da Casotti, a Agazzi, a Flores d’Arcais, a Mencarelli, a Scurati. Ad una di queste settimane di studio fui invitato anch’io per esporre le mie idee e esperienze circa la formazione di una coscienza europea. In quella occasione, in cui non ci si preoccupava dell’impegno della scuola per l’Europa e si cincischiava su questioni marginali, percepii ancora una volta di più che il “parlar chiaro” di Viotto non derivava solo dalla sicurezza intellettuale simile ad un rigido teorema matematico, ma che usava la ragione per ricercare la verità e per valutare prima di prendere per buono ciò che credeva di sapere; capii che le sue asserzioni erano frutto della sua esperienza d’insegnamento, che le sue argomentazioni erano seme fecondo maturato nello studio rigoroso del “suo” Maritain e che le stesse discussioni diventavano spiragli per invitare noi giovani a scoprire nuovi orizzonti. “Claritas est caritas” dicevano i medioevalisti e Piero Viotto affascinava per la lucidità del pensiero, la disciplina morale, l’impegno coerente.

E venne il tempo della maturità. Si immerse ancora di più negli studi e nella ricerca. Noi amici rimanevamo stupiti di fronte alla mole di saggi che pubblicava. L’amore per la filosofia dilatava fino all’ amore per l’arte e per la musica. Si sottraeva alle nostre discussioni che riguardavano il mondo ecclesiale e la vita politica: a lui, uomo dalla fede robusta, si poteva permettere di indulgere a un certo scetticismo e relativismo cristiano. Conversava non per ascoltare sermoni, preferiva ascoltare e alla fine decideva secco: “Prima di votare sarà bene recitare il “Veni Creator!”. Negli ultimi tempi considerava l’amicizia non solo esperienza di accordo, di armonia, di pace, ma piuttosto miscela di preghiera e di silenzio.

La vita è stata generosa con me. Mi ha riservato molte opportunità. Ho conosciuto tante persone. Scrivo questi pensieri il giorno dell’Epifania: penso che anche l’amicizia sia una manifestazione di Dio. Lo dice anche Paul Ricoeur: “La amicizia è una traccia lasciata da Dio”. L’amicizia è anche pudore e molto deve restare sommerso nelle crepe del cuore per fare entrare la Luce di cui gode ora Piero e che fa un tutt’uno con la Speranza.

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