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Editoriale

EPPURE

MASSIMO LODI - 27/01/2017

giornalistaAnche i giornalisti, non solo i politici o altri, sono casta. Tutti insieme, un bel gruppone indistinto: il populismo d’accatto, purtroppo imperante, li sprezza così. Vale ricordarlo, con realismo/dispiacere, nel tempo in cui si celebra la festa patronale della categoria, affezionata alla protezione di San Francesco di Sales.

Giornalisti prevenuti e maliziosi, immaginifici e complottisti, schierati e schienati: la narrazione contemporanea, guidata dai torvi legionari dello sfascio per lo sfascio, è soprattutto questa. Ogni tanto qualche sciagurato evento ne incrina gli stereotipati asserti: l’inviato decapitato là, il fotoreporter freddato qua, anche solo (1) un cronista minacciato, là e qua. Segue conformistica/stucchevole solidarietà della moltitudine ipocrita. Riflessione: forse la stampa è qualcosa di diverso da com’è spesso indicata. Forse la sua anima libera diventa riconoscibile di rado e tardi, quando ormai si è al conteggio dei caduti, o anche solo (2) degli screditati, senza prova alcuna. Forse, e semplicemente, circolano mediocri e interessati luoghi comuni.

Facile esprimere doglianza a sentenze criminali ormai eseguite o anche solo (3) a vita privata ridotta a un inferno. Più difficile riconoscere sempre ruolo, funzione, importanza, perfino insostituibilità istituzionale al giornalismo nelle sue varie forme, e al netto di errori/partigianerie/servilismi che ovviamente non gli sono estranei. Ma trattasi d’eccezioni, invece che della regola.

La cultura della tolleranza verso le idee altrui, dell’apprezzamento del criticismo, della convivenza tra voci diverse d’una società non è prevalente. La supera la tendenza a rimuovere le obiezioni, rifiutando lo schema del gioco democratico imperniato sul confronto. Nella quotidianità affiora/primeggia il convincimento che l’esercizio del controllo degli elettori sugli eletti non sia mosso da spirito obiettivo, da coscienza morale, da scopo di progresso collettivo. Il dito qualunquista preme sul grilletto della dietrologia: si scrive qualcosa a vantaggio di qualcuno. La figura del giornalista retrocessa a strumento usato da una parte del sistema per destabilizzare l’altra, non degnata del rango d’una sua autonomia, inquadrata in una luce di livida obliquità. E il giornale che viene ritenuto -anziché mezzo del contropotere dipendente solo dal servizio reso ai lettori- un potere come tutti gli altri, finalizzato ad avere influenza sulle decisioni politiche/economiche eccetera.

Eppure. Eppure non ci sono solo pochi giornalisti che, in giro per il mondo, sacrificano alla notizia la vita. Questi appartengono all’eccezionalità d’un mestiere mai stanco di chiederla al drappello dei suoi interpreti disposto all’eccesso professionale. Ce ne sono molti che, nella routine ordinaria d’una qualunque periferia editoriale, s’assumono l’impegno umile/audace di scoprire fatti nascosti, darne meticoloso conto, commentarli con passione fervida, denunziare ciò che non va, proporre di rimuoverlo e cambiare per il nuovo e il meglio. Vanno ben oltre il semplice obbligo di lavoro, gli sembra d’essere mobilitati da un appello etico, di dover obbedire a una vocazione civile, e dunque di corrispondere a una chiamata a suo modo missionaria.

L’entusiasmo che mettono nell’avventura professionale, la tenacia nel documentarsi, il coraggio d’affrontare argomenti a rischio, gli assegnano il ruolo di voce popolare. Reale, vera, genuina. Accesa dallo scopo di testimoniare quel che succede secondo misura, stile, metodo scelti declinando senza condizionamenti d’alcun genere la sensibilità individuale. Ciascuno ha la sua, e l’usarla per conto di tutti merita un rispetto affatto che saltuario e peloso, vile e tartufesco, opportunistico e miserabile.

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