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Cultura

L’INCOMPIUTA DEL “POGLIAGHIN”

SERGIO REDAELLI - 03/02/2017

pogliaghinDistratto, geniale, completamente preso dall’arte. Un giorno Lodovico Pogliaghi fu rimproverato per aver scritto una lettera datandola 1500 anziché 1800 e lui rispose imperturbabile: “Hoo minga sbagliàa a scriv, hoo sbagliàa a nass”. Era proprio così. Spirito irrequieto, gusti da principe rinascimentale, facile alla battuta in dialetto. A descriverlo è Luigi Medici (1888-1965), avvocato e poeta dialettale nel libro “Incontri di anime” (Vallardi, 1958), dedicato a personaggi di riguardo, Giuseppe Verdi, Arrigo Boito, Ildefonso Schuster, il poeta Trilussa, don Orione e altri.

L’incontro – scrive Medici – avvenne il 24 giugno 1950 nel sontuoso eremo della Madonna del Monte di Varese, “una gioia che mi fu offerta purtroppo non molto tempo prima che ci abbandonasse (nda, Pogliaghi morì improvvisamente una settimana dopo, il 30 giugno). Molte volte lo avevo incontrato a Milano nei miei paraggi, dove aveva lo studio, in via Pontaccio, nei saloni quasi papali di palazzo Crivelli, con quel suo cappellino schiacciato in testa e il passettino rapido di passerino eccitato. I milanesi lo chiamavano “el Pogliaghin” perché vedevano in quell’omino alto un soldo di cacio ma tutto nervi, tutta volontà, tutto spirito di acutissimo entusiasmo ambrosiano, un simbolo d’arte lombarda”.

A volte si lasciava cogliere davanti alla sua porta, rivela Medici, a togliere col fazzoletto i doni che i colombi, con troppa confidenza, lasciavano cadere su angeli e profeti. Ma torniamo alla visita al Sacro Monte. “La porta ci fu aperta dal Pogliaghin in persona che aveva lasciato sul trespolo un busto di Giuseppe Verdi in lavorazione, per l’ennesima interpretazione ricavata da due fotografie con dedica autografa. Ci venne incontro con tanta affettuosità. Erano con me un pronipote di Alessandro Manzoni e gli amici Crivelli, ultimi discendenti di papa Urbano III”.

Il poeta descrive la visita, osserva trasecolato i capolavori di luoghi e secoli diversi e riferisce i commenti arguti, in dialetto meneghino, pronunciati del padrone di casa. Ecco i candelieri di Luigi XV “coi brascioeu bass per vedegh a giugà ai cart. Raffinatezz de Luis quindes”. E una bizzarra medaglia del Bramante che raffigura la cupola di San Pietro a Roma come l’aveva pensata lo stesso Bramante, una costruzione tipo il Pantheon con timpano e colonne, collocata sul tamburo della basilica: “Ma, per grazia di Dio, l’ha minga fada su; e gh’emm quella de Michelangiol…”.

La visita continua e gli ospiti ammirano la statuetta del satiro che il loro anfitrione toglie da un armadietto: “E adess ve fo vedè ona statuetta che l’è ona bellezza… L’è on satirett ch’el se sent spontà foeura el coin…” e indica con l’indice della mano destra il curioso gesto del piccolo satiro che cerca la coda che spunta sopra le reni. Per un attimo Pogliaghi gli sembra Cellini e Luigi Medici annota: “Gli occhietti mobili, neri, furbi, lucidissimi del Pogliaghin, la barbetta di buon sileno, il raggrinzar del minuscolo viso rivivono l’attimo in cui l’ignoto artista greco aveva trasfuso tanto umorismo nel bizzarro capolavoro”.

“Vardee come l’è bell – sospira Pogliaghi – el se volta indrée cont on faccin… el g’ha pagura e, in l’istess temp, l’è content. Che balossett!”. Più avanti passa affettuosamente le dita sulla stupenda testina del “fiolin che caragna” di Donatello e lascia per ultimo il Dioniso della scuola di Prassitele, un nome che basta da solo a stordire il visitatore. Medici commenta: “El Pogliaghin, col suo spirito milanese, ce lo presenta come “el so padron de cà”. Ecco i pizzi del ‘500 veneziano, le stoffe di porpora orientali, le ceramiche dipinte da Giulio Romano, i bassorilievi tombali dell’antica Roma, i corali miniati arabi, i tappeti persiani e, naturalmente, il gesso della porta maggiore del duomo di Milano.

Infine l’opera del padrone di casa che resterà incompiuta, Il culto della Vergine nei secoli: “I cartoni, già finiti e rifiniti, correvano lungo le pareti di una sala dell’eremo – riferisce il visitatore – Pogliaghi si riprometteva di dipingerli nel prossimo anno sul magnifico bozzetto ad olio già predisposto. Le novantaquattro primavere sulle spalle non lo impressionavano. “I pittureroo l’ann che ven”, disse con un ottimismo sereno. Ma non ci sarebbe stato il tempo. Ben diversamente si era espresso qualche anno prima con la figlia di Arturo Toscanini, che gli aveva chiesto perché, dopo la porta del Duomo di Milano, non scolpisse le porte di Santa Maria Maggiore a Roma: “Se fudess pussée giuin, come el so pà…”, era stata la risposta.

La visita è finita e Luigi Medici, ormai fuori dalla casa-museo, non rinuncia a ricordare il Sacro Monte come gli era apparso alcuni anni prima in un giorno di fitta nebbia: “I fari non riuscivano neppure a rischiarare le bancherelle dei venditori ambulanti, quelle bancherelle caratteristiche, piene di immagini sacre e di pendule corone dei rosari d’osso, di legno, di lagann, frutti spinosi d’una pianta palustre del lago varesino, trasformate in Ave Marie. Neppur si vedevano le bancherelle con le tende, con le ali ripiegate, che esponevano ricordi del santuario, cartoline, cavallini, trombette, pampare e girometti dolci di pasta dura in cui sono infilate piume variopinte. Tutto un mondo dell’Ottocento caro al Pogliaghin e ai pellegrini di Varese”.

Nella foto: ritratto del “Pogliaghin” disegnato nel 1925 da Giuseppe Palanti, che gli fu braccio destro nella direzione artistica del Teatro alla Scala, creando scene e costumi (dal libro di Luigi medici “Incontri di anime”)

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