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Cultura

L’UNICA PAROLA IN GESÙ

LIVIO GHIRINGHELLI - 03/02/2017

karl_barthNato a Basilea Karl Barth (1886-1968) è rimasto per lungo tempo condizionato dalla personalità teologica conservatrice del padre Fritz, teologo e professore di storia della Chiesa e di esegesi neotestamentaria nell’Università di Berna. Nella vita di Karl nessun grande evento pubblico, assidui il pastorato e la predicazione, assorbente la vita universitaria, via via a Gottinga, Münster, Bonn, donde fu cacciato da Hitler nel 1935, Basilea. Comunque notevoli le sue prese di posizione contro il nazismo, contro la guerra fredda, contro la bomba atomica.

Alla fonte del suo imponente lavoro la Bibbia e i giornali. Tra le opere principali la seconda versione dell’Epistola ai Romani (1922), il saggio Fides quaerens intellectum (1931), in relazione al pensiero di Anselmo d’Aosta, la Storia della teologia protestante nel secolo XIX (1946). I primi scritti risentono della concezione liberale della religione dominante a Marburgo, sede raggiunta da Barth nell’estate del 1908. Qui risente delle tendenze neokantiane e collabora alla rivista Christliche Welt, organo del movimento liberale. Ma un superamento del moralismo è già Das Wort Gottes und die Theologie del 1916 a causa della rottura kerygmatica.

Terminati gli studi con la laurea Barth abbraccia la missione del pastore, seguendo le orme paterne; sue sedi via via Ginevra (approfondimento dell’Institutio di Calvino), Safenwil, piccola parrocchia dell’Argovia, lacerata dalla questione sociale, Gottinga, qui per assumervi la toga accademica nel 1921.

Nel primo ventennio perdura la natura polemica, negativa, ironico-critica delle certezze morali e religiose del mondo borghese. Ma dal 1919 al 1922 si attua quella rivoluzione copernicana, da cui nasce, per coagulazione spontanea, il movimento dei teologi dialettici o della crisi (Barth, Bulltman, Brunner, Gogarten, Thurneysen). I sostenitori di questa teologia accentuano la trascendenza di Dio, accessibile solo mediante la fede e la contrappongono alla religione intesa come modalità umana di approccio al divino. Tra il1927 e il 1967 si svilupperà per Barth il periodo gioioso e positivo dell’elaborazione dogmatica.

La religione per Barth ha senso solo come movimento (a priori) di Dio verso l’uomo, non come uno dei prodotti che l’uomo genera in piena autonomia. Questo in netto contrasto con Schleiermacher, per cui la religione è una modificazione percepita a partire dal soggetto, come per tutta la teologia idealistica. È per Barth questa “l’insolente teologia dell’identità”, di cui Feuerbach è stato il radicale dissolutore. Calvinianamente Dio è visto trionfante da Barth sulle ceneri dell’essere avere e fare dell’uomo. Dio è inteso come totalmente altro. Nessun contributo ermeneutico esiste da parte dell’uomo. Il sì di Dio è possibile solo con il no detto all’uomo (Dio è Dio, l’uomo non è Dio). Non esiste alcun rapporto, se non la negazione, tra l’uomo naturale, quello tra parentesi e l’io fatto esistere nella fede.

Quello che nell’uomo e per mezzo dell’uomo ottiene essere, forma ed estensione, è sempre e dovunque, e come tale, empietà e insubordinazione. Barth non permette una prassi di liberazione che non consista soltanto nell’atto di fede ed è sostanzialmente fedele a un’impostazione rigorosamente dualistica del rapporto tra Dio e il mondo. Dio rimane sempre Dio, ossia una realtà totalmente altra dai prodotti metafisici, che finiscono per influsso della linea platonica ascensiva dei gradi dell’essere in una iperbole del mondo.

C’è una rivendicazione del valore kerygmatico della realtà teologica, contrapposta in maniera violenta a qualsiasi cattura ontologica, psicologica, religiosa e sociologica. Ma nelle ultime parti della Dogmatica ecclesiale il mondo è visto nel segno della riconciliazione (tema l’umanità di Dio) in forza della decisione kerygmatica.

L’esigenza di un commento a Paolo è segno dell’avvenuta rottura con le speranze etico-politiche della tradizione liberale. La nostra morale non salva, anzi ci rende ciechi e insensibili alle reali, profonde angosce dell’esistenza. “Le più grandi atrocità della vita sono state giustificate con altissimi principi morali”.

La Bibbia non è un libro storico, né può essere ridotta a discorso morale; ne sta al centro l’azione di Dio, non l’azione dell’uomo. “Non ci dice come dobbiamo parlare a Dio, ma quello che lui ci dice”. È della rivelazione e non di religione che si fa questione nella Bibbia. Dalla prima edizione (1919) al secondo Römerbrief (1922) si sviluppa la storia di una conversione teologica. Il metodo storico-critico non basta, si deve lasciare alla parola di Dio la sua solitaria assolutezza.

C’è un’infinita differenza qualitativa tra Dio e il mondo. “Chi si interessa dello spirito, del cuore, della scienza, dell’interiorità, dell’uomo, deve chiedersi se veramente si interessa di Dio oppure dell’apoteosi dell’uomo”. Il Dio della rivelazione è del tutto diverso dal Dio delle filosofie, perché è colto solo in forza della fede. “Il punto della linea di intersezione, in cui la relazione tra noi e Dio può essere veduta, ed è effettivamente veduta, è Gesù”. Significa il luogo della rottura tra il mondo da noi conosciuto e un altro sconosciuto.

Dio non vive del diritto che noi gli diamo, Egli è Dio del proprio diritto. E la fede che significa concretamente “Io credo al Signore Gesù Cristo” non è mai compiuta, data, assicurata. In essa Dio diventa veramente misterioso. Neppure la disposizione peccaminosa è un’impresa imputabile all’uomo, che tornerebbe così ad essere attore, ma risiede nella divina predestinazione dell’uomo alla riprovazione che segue la sua eterna elezione in Cristo, come l’ombra segue alla luce. Come c’è la nostra radicazione nella volontà di Dio, così la grazia è irreversibile.

L’uomo di Chiesa è come uno che soffre, in nessun caso come uno che trionfa. Quella che va negata è la Chiesa della carne e della istituzione, perché in essa avviene la distruzione del Vangelo. Nella Chiesa il movimento di Dio perde la sua autonoma libertà e imprevedibilità, si fa visibile e organizzato. Non c’è fede, se non c’è accoglimento, cioè conoscenza e conferma della parola di Cristo. Il credere è presupposto dell’intelligere. Nella fede sono già dati principio e fine dell’intelligere.

Il teologo non ha da motivare le affermazioni della fede, ma da comprenderle nella loro stessa incomprensibilità, servendosi di un linguaggio figurato per esprimere ciò che è in sé ineffabile. La fede presenta come creduta la res significata nelle voces del Credo, ma, in quanto Dio è causa veritatis, permette che questa cosa sia anche saputa. La dogmatica deve essere fondamentalmente cristologica e unicamente cristologica.

Barth punta alla fine su una dimensione mediata dell’essere di Dio, quella che risulta dalla mediazione di Cristo nella realtà della storia. La parola di Dio che la predicazione e la dogmatica devono insegnare è la parola della riconciliazione (quella intervenuta in Gesù Cristo). L’umanità di Gesù è il primo dei sacramenti. Il che significa che Dio è sempre soggetto, ma che egli si fa in maniera paradossale anche oggetto per noi.

La theologia crucis è come una condanna di ogni parlare umano su Dio, bisogna vedere in Gesù la parola, l’unica possibile, che Dio dice all’uomo a proposito di se stesso. Quanto all’opera Fides quaerens intellectum si presenta come una confutazione dell’analogia entis e dell’apologia della “prova ontologica” dell’esistenza di Dio come unica possibile all’interno della fede stessa.

Da rilevare infine il rilievo da riferire alla Confessione-Dichiarazione di Barmen del 1934 contro le tentazioni nazionalsocialistiche presenti anche tra i cristiani (promotore principale Karl Barth) e alle aperture ultime, sia pure problematiche, al cattolicesimo in fase di rinnovamento grazie al Concilio Vaticano II.

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