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Editoriale

UN’ANIMA

EDOARDO ZIN - 17/02/2017

europa“Il Regno Unito non può immaginarsi che ci si possa rendere prigioniero di un impegno di così grande portata… Si tratta di una differenza culturale, di educazione politica, di tradizione nazionale… Il Regno Unito non accetterà d’integrarsi in Europa che sotto l’impulso degli avvenimenti” – a scrivere così, nel lontano 1963, è stato Robert Schuman, non un ipercritico dell’Unione Europea, né un euroscettico, né tanto meno un “sovranista”, come si usa dire oggi, ma uno dei padri fondatori dell’Europa Unita.

La candidatura del Regno Unito all’allora Comunità Europea rimonta al 1961 e vi entrò definitivamente nel 1973, quando il fiero avversario al suo ingresso, il generale De Gaulle, era già scomparso da tre anni. Gli inglesi si sentirono scomodi nell’Europa comunitaria fin dall’inizio e la loro insofferenza aumentò man mano che l’Europa avanzava verso orizzonti di maggiore integrazione e sovra-nazionalità. Durante la sua permanenza nella Comunità prima e nell’Unione successivamente, la Gran Bretagna cercò di indebolire la costruzione europea (vi ricordate la signora Thatcher?) e al momento dell’allargamento premette l’acceleratore, sperando così di rendere ancor più fragile l’Unione.

Ora – a Brexit compiuta – i governanti inglesi cercano di dilazionare nel tempo la totale uscita, anche perché molti cittadini inglesi – in testa gli scozzesi! – mostrano di considerare essenziale per gli interessi britannici la permanenza nell’Unione. Londra ha un interesse particolare a non perdere l’aggancio con il Mercato Interno, ma non vuole sottostare al principio della libera circolazione delle persone al suo interno.

Personalmente, non piangerò per il distacco del Regno Unito dall’Unione Europea, ma auspico di tutto cuore che gli ex compagni di viaggio non tirino troppo la corda per evitare che gli inglesi ci ripensino. È di questi giorni la notizia che il governo di Sua Maestà sta riflettendo sull’opportunità di elevare l’età pensionabile dei cittadini inglesi per sopperire alla mancanza di giovani forze lavoratrici dovuta al calo demografico.

Chiarezza è stata fatta: tutto quello che si doveva fare – sia da parte dei governi britannici che dagli altri paesi membri – è stato fatto. Ogni popolo ha il diritto di decidere il proprio avvenire. Ma la libertà ha un prezzo. Per tutti. Anche per i “sovranisti” di casa nostra che predicano l’uscita dall’Unione e dalla moneta unica. Se hanno ancora un briciolo di sapienza riflettano bene, sostituendo alla sterile e vuota propaganda fatta di rancorosi slogans il ragionamento pacato. In una democrazia non vi sono solo compiti e doveri del popolo, ma c’è anche la responsabilità dei suoi leader.

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Quando si parla di “Europa a due velocità” c’è chi sghignazza, c’è chi teme la supremazia della Germania, c’è chi ironizza su questa proposta, che tanto nuova, poi, non è. Attualmente, i paesi che aderiscono alla moneta unica, ad esempio, sono diciassette e gli altri dieci continuano gli scambi con la moneta nazionale, eppure tra tutti i ventisette sono in vigore norme comuni che riguardano comuni ambiti e politiche economiche. In settantasette anni di vita della Comunità a periodi di forte integrazione sono succeduti periodi di isolamento da parte di alcuni paesi: basti pensare alla crisi succeduta alla bocciatura della C.E.D. ma che ha portato alla firma dei Trattati di Roma di cui ricorderemo il prossimo 25 marzo i settanta anni, basti pensare alla politica della “sedia vuota” instaurata dalla Francia, che per sette mesi non partecipò alle riunioni delle istituzioni europee, ma che sfociò successivamente in una politica socio-strutturale a favore degli agricoltori e al rilancio del processo d’integrazione del vertice dell’Aja nel 1969. E potremo continuare.

Ad entrare in crisi non è l’Europa, ma il sistema degli stati europei. Il patto originario era fondato sulla riconciliazione tra Francia e Germania, sull’obiettivo dell’unità europea da raggiungere per gradi attraverso l’armonizzazione delle politiche economiche e l’introduzione dell’euro ha rappresentato il naturale sviluppo di queste politiche. La moneta unica ha comportato comuni regole di bilancio, ma il patto di stabilità non ha funzionato perché il rigore ha condotto a politiche di recessione.

Frau Merkel, da statista avveduta e da europeista convinta, ha chiesto che le politiche economiche, finora coordinate da un sistema molto blando non più sostenibile, siano guidate da un nocciolo di paesi volonterosi attorno ai quali si potrà costituire un’architettura costituzionale molto semplice, molto diretta e molto vicina ai cittadini. Non ha chiesto l’euro a due velocità. Da questa proposta l’Italia (ci dispiace ragionare in termini nazionali!) ha tutto da guadagnarci purché non si voglia far dire ai numeri ciò che il governo vuole. Per raggiungere tale fine, è necessario che ogni stato rinunci a un grado di sovranità nazionale per poter ragionare sul fatto che i debiti vanno in qualche modo condivisi. Va da sé che ciò porterà a tutti i costi a una legge finanziaria europea.

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Ma tutto questo non si potrà attuare se l’Europa non si darà un’anima, cioè una forte tensione ideale per avere più Europa e non rifugiarsi nei localismi, nei nazionalismi, nelle politiche autarchiche. Chi racconta la favola che il contenitore della democrazia è lo Stato nazionale, perciò chi ama la democrazia deve preservare intatta l’unità nazionale, sa di dire una menzogna. I cittadini rifiutano sì l’idea di un’Europa velleitaria e accidiosa, ma non quella che unisce nella diversità e nella prosperità. L’Europa unita non è la negazione della nazione, ma il suo sviluppo in un contesto più ampio.

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