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Presente storico

COME AD EUFEMIA

ENZO R. LAFORGIA - 24/02/2017

Eufemia la “città invisibile” di Calvino

Eufemia la “città invisibile” di Calvino

In un libro del 2007, L’identità dell’Europa, edito a Bologna dal Mulino, il filosofo Pietro Rossi giungeva alla conclusione che il nostro Vecchio Continente «è una realtà storica alla cui formazione hanno contribuito molteplici componenti, e che storicamente mutevoli sono le forme che la sua identità ha assunto». Pertanto, quella che tentiamo di definire «identità europea» non è che un intrecciarsi di problemi, i cui termini si sono continuamente modificati nel corso della storia e sono destinati a modificarsi ancora.

Questa pluralità di “radici”, storie, culture, questa “identità” plurale si ritrova anche nei lontani ricordi di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981. Elias Canetti, nato in Bulgaria, ebreo sefardita (cioè di lontane origini spagnole), italiano per parte di madre, naturalizzato britannico, scelse di scrivere in lingua tedesca. Oggi è sepolto a Zurigo. Il primo volume della sua autobiografia, La lingua salvata, del 1977, si apre con il ricordo del luogo in cui era nato, sulle rive del Danubio, crocevia di popoli, lingue e culture:

«Rustschuk, sul basso Danubio, dove sono venuto al mondo, era per un bambino una città meravigliosa, e quando dico che si trova in Bulgaria ne do un’immagine insufficiente, perché nella stessa Rustschuk vivevano persone di origine diversissima, in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue. Oltre ai bulgari, che spesso venivano dalla campagna, c’erano molti turchi, che abitavano in un quartiere tutto per loro, che confinava col quartiere degli “spagnoli”, dove stavamo noi. C’erano greci, albanesi, armeni, zingari. Dalla riva opposta del fiume venivano i rumeni, e la mia balia, di cui però non mi ricordo, era una rumena. C’era anche qualche russo, ma erano casi isolati.

Essendo un bambino non avevo una chiara visione di questa molteplicità, ma ne vivevo continuamente gli effetti. Alcune figure mi sono rimaste impresse nella memoria semplicemente perché appartenevano a particolari gruppi etnici e si distinguevano dagli altri per l’abbigliamento. Fra la servitù che ci passò per casa nel corso di quei sei anni, una volta ci fu un circasso e più tardi un armeno. La migliore amica di mia madre era Olga, una russa. Una volta alla settimana, nel nostro cortile venivano gli zingari, tanti che mi parevano un popolo intero […]».

La città natale di Canetti mi ha sempre fatto venire in mente Eufemia, una delle Città invisibili di Italo Calvino. Eufemia è il luogo dove «i mercanti di sette nazioni convengono a ogni solstizio ed equinozio». E ad Eufemia, «la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”, “scabbia”, “amanti” – gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno di Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio».

L’identità europea, di un’Europa in cui si parlano 24 lingue, forse risiede, come spiegava Umberto Eco ai giovani incontrati presso il Palazzo del Quirinale il 29 novembre del 2014, in quel «lungo dialogo tra letterature, filosofie, opere musicali e teatrali», che ne ha caratterizzato la storia. In quella lunga e continua condivisione di storie. Come ad Eufemia.

Di recente, mi è capitato tra le mani il testo di un intervento di George Steiner, pronunciato presso il Nexus Institute alla fine del 2003 (lo si può leggere nel volumetto Una certa idea di Europa, edito dal milanese Garzanti nel 2006). Steiner, uno degli intellettuali più affascinanti ed autorevoli del nostro tempo, ritiene che l’Europa è i suoi caffè: a Lisbona, quello frequentato da Fernando Pessoa; a Odessa, dove si ritrovavano i gangster di Isaac Babel; a Milano, Venezia, Parigi, dove si fermavano Stendhal, Casanova e Baudelaire o dove, al Café Procope, si svolse l’ultimo incontro tra Danton e Robespierre; nella Vienna di Freud, Karl Kraus, Musil, Carnap o nella Copenhagen di Kierkegaard; a Trieste, aggiungeremmo noi, dove si incontravano Svevo e Joyce, o a Roma e Firenze, dov’è nata la cultura del primo Novecento. Il caffè è stato il luogo dell’incontro, della conversazione, della sedizione, dell’eloquenza e del dibattito. Della elaborazione, della nascita di idee e fermenti nuovi.

Insomma, i caffè che Steiner eleva a metafora della nostra vecchia Europa, sembrano evocare la Rustschuk di Canetti. Di fronte ai rigurgiti nazionalisti, al riemergere di odi antichi alimentati da una paura irrazionale, di fronte alla invocazione di muri e barriere, il «genio dell’Europa», come lo definisce George Steiner, è quello di «una diversità linguistica, culturale, sociale, di un mosaico ricchissimo che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, nella frontiera tra due mondi». Come accade al viaggiatore che, in occasione del nuovo solstizio o del prossimo equinozio, dovesse fermarsi per una notte ad Eufemia.

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