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Il racconto

E IL CANCELLO SI APRÌ

LUISA NEGRI - 10/03/2017

cancelloEra arrivata la lettera. Era toccata a lui, tra migliaia di giovani uomini.

Queste erano le regole, le leggi del suo perfetto, piccolo Paese dove tutto funzionava come un orologio e dove non si era abituati a negarsi. Perché, se ti tocca, è il tuo momento di metterti in gioco e al tuo paese non puoi dire di no.

Capelli neri ricciuti, bello come un dio-glielo dicevano fin da piccolo-Isaac aveva terminato da poco il servizio militare. Ma sapeva che in ogni momento avrebbero potuto richiamarlo. Come era avvenuto con quella lettera. Per scherzo, tra coetanei, avevano pensato come si sarebbero comportati se si fosse verificata la chiamata, perché non era escluso potesse toccare a qualcuno di loro.

Eppure quante possibilità ci sarebbero state? E, invece, era successo. Era toccato a lui.

Non di guerra si sarebbe trattato, il suo paese era dichiaratamente contro la guerra. Ma avrebbe preferito andare a combattere. Quella che gli stava per cadere addosso sarebbe stata per lui una guerra tra le peggiori, perché avrebbe dovuto combattere contro l’idea della morte e contro se stesso.

Da due giorni non riusciva a non pensarci. Se n’erano accorti gli amici: aveva cambiato espressione, il sorriso era sparito. E tutti sapevano nella cittadina dov’era nato.

Il Paese aveva risolto così il problema di coscienza verso un popolo che chiedeva di dare risposta alla richiesta – da molti sostenuta come lecita e giusta – di poter morire come e quando si voleva. Lo Stato, si diceva, non poteva tenersene fuori. Si erano incrociati pareri autorevoli, tanti gli scontri di pensiero, le furiose prese di posizione, gli appelli accorati, le manifestazioni di associazioni convinte che lo Stato non potesse tirarsi indietro. Alla fine la legge era arrivata e passata, lo Stato autorizzava. A provvedere in concreto avrebbe delegato dei privati, sostenuti dai necessari finanziamenti e sotto rigoroso controllo. Il pericolo, ravvisato dai contrari, era che si potessero perpetrare abusi su soggetti deboli e incapaci di scegliere, malati terminali sottoposti alla occulta volontà di familiari o tutori smaniosi di sopprimere persone ingombranti.

In una società ormai votata all’egoismo, dove tutti usavano tutti, dove l’impensabile era accolto come legittimo a scapito degli indifesi, non sarebbe stato poi così difficile eliminare presenze sgradite, oppure soggetti dalla cui morte potessero derivare benefici economici e vantaggi personali. Queste erano le obiezioni messe avanti da molti.

Per tutto questo Isaac si era presentato non senza angoscia, ma anche col desiderio di comprendere se, quanto gli sarebbe stato chiesto, fosse cosa giusta. Oppure se la sua volontà sarebbe stata piegata, per disposizioni superiori, a un’ esigenza che non solo non avrebbe portato risposte convincenti, al contrario si sarebbe concretizzata nella sostanza come un assassinio legalizzato.

L’uomo che lo aveva mandato a chiamare, il funzionario del distretto in cui ricadeva il territorio deputato, lo aveva accolto con un certo imbarazzo.

La vista del giovane, nel fiore degli anni, lo aveva forse portato a pensare come nella vita si possano incrociare destini e vite tanto diversi. Pesava anche a lui doversi fare latore di informazioni e spiegazioni che avrebbe preferito non dovere mai dare. Ma occorreva mettere da parte l’imbarazzo e andare diritto al sodo della motivazione, riguardante la sgradevole incombenza che era toccata, per sorteggio, a chi gli sedeva davanti.

Gli era venuto di pensare a quando suo padre, giovane ufficiale, era stato chiamato alle armi.

In quel momento il funzionario si sentiva parte responsabile di un ingranaggio mortale che tocca più o meno il destino di ogni uomo: quasi fosse lui ora al posto del comandante in capo che aveva spinto suo padre sotto i bombardamenti, assieme ai compagni. La sua vita in un paese neutrale non gli risparmiava di essere, anche qui, parte dell’ingranaggio. Nessun uomo, rifletteva, si libera dal male che tocca il mondo, e, presto o tardi, tutti ne siamo toccati.

Il male ora stava toccando lui, e toccava soprattutto quel bel ragazzo pieno di speranza che gli stava davanti e al quale stava per imporre, se l’altro avesse accettato, un diktat penoso.

Era stato chiamato, cominciò a relazionare il funzionario, perché mancava una persona da inserire nella casa di cura di X, dove i malati terminali andavano per chiudere per sempre gli occhi e porre così fine alle loro sofferenze.

La cautela delle parole del funzionario cercava di ridurre, di smorzare, nell’ esposizione il più possibile neutra del compito da affidare, la negatività dell’incarico. Nella realtà la fila dei prossimi ospiti della casa di cura, dove si praticava la cosiddetta dolce morte, si andava allungando: un operatore se ne era però andato per non aver retto all’incarico e rimaneva un solo uomo disponibile. Di fronte al rifiuto di diversi interpellati ci si era rivolti alle leve, questa era la soluzione adottata.

Alla fine del colloquio il funzionario gli aveva comunicato che avrebbe avuto una settimana per decidere se accettare.

Isaac aveva accettato, alla fine, non senza intima riluttanza, figurandosi che chiunque, subentrato al suo posto, avrebbe potuto occupare quel delicato ruolo senza possedere la necessaria lealtà per far sì che nessun abuso venisse compiuto.

L’impatto con il posto non era meglio delle aspettative. L’aspetto triste e isolato dell’edificio, le imposte in parte abbassate, il colore grigiastro delle pareti esterne e l’insieme del sito gli avevano rivelato subito, fin da fuori, quanto avrebbe trovato all’interno: corridoi stretti e bui, camere velate dalla penombra, voci sommesse e lamentazioni ripetitive e incomprensibili, senza più un filo di speranza. L’operatore che aveva la parte più sgradevole, quella di portare la fiala, e controllare che tutto fosse al posto perché il morituro potesse berne, era un medico emigrato, bisognoso di guadagnare per mantenere i numerosi figli.

Isaac aveva trovato umanità in quell’uomo, ma a turbarlo erano l’atmosfera del posto, la premura, il nervosismo impaziente degli accompagnatori, parenti o amici. La sua non era una funzione definita, ma piuttosto di ausilio all’operatore, quando necessario, e di incombenze varie. E questo lo poneva nella condizione di dover essere comunque sempre disponibile.

 L’onestà del carattere lo portava a vivere la situazione con un rifiuto di base ma con l’accettazione insieme di chi si trova suo malgrado in un posto nel quale non ha scelto di stare, semmai, come aveva ragionato, di esercitare un onesto controllo, a metà tra imposizione doverosa e missione.

Col passare dei giorni si imprimeva però sempre più nei suoi occhi, e nel suo animo, la visione angosciosa di volti sfigurati e sguardi allucinati. Gli pareva d’essere dentro un film, nel braccio della morte di un luogo di pena, del quale lui era l’indispensabile, seppur non unico, operatore. La sua vita, pensava Isaac, era andata, suo malgrado, a incagliarsi lì, in quel limbo di attesa dove la fine era invocata come promessa liberatoria. Gli sembrava ingiusto fosse toccato a lui quel compito, gli sembrò ancor di più quando dovette assistere, anziché un malato terminale, una giovane depressa che aveva deciso di uscire dalla sua vita. Aveva incrociato per un momento il suo sguardo- lei lo aveva fissato- e sperato che tanto bastasse a farla recedere da quello che considerava un folle proposito.

Era rientrato più tardi nella camera, aveva deposto nel bicchiere un fiore colto nel giardino. In quel fiore, una rosa rossa dall’intenso profumo, Isaac aveva riposto tutta la sua speranza.

Lo sguardo della ragazza si era di nuovo fissato su di lui, ma a Isaac era sembrato di cogliere un misto di rimprovero e di sfida, di irritazione- forse verso di lui, forse verso se stessa o ancor più qualcuno che l’aveva fatta troppo soffrire.

Non sapeva quando la cosa sarebbe avvenuta. Non nell’immediato.

Ma, forse il giorno dopo- il tempo non gli pareva avere più la normale sequenza- quando Isaac tornò in camera la ragazza non c’era più, e un vecchio aveva preso il suo posto.

Seppe dall’operatore che tutto era già avvenuto. Quella notte Isaac non dormì, e neppure nei giorni seguenti.

Venne il giorno di festa, infine, e lui corse verso il colle: era un giorno di vento impetuoso, il lago rifletteva sole e cielo a perdersi. Fu in cima. Vide, più sotto, la conca azzurra e limpida. E non ci pensò due volte.

Mentre calava verso il fondo, gli parve di scorgere gli occhi trasognati della ragazza, vide la rosa illanguidirsi nell’acqua.

***

S’era svegliato più tardi del solito quella mattina, e ancora stanco, gli pareva, più di quando si era coricato. Aveva dormito male, colpa forse della cattiva digestione. Si guardò attorno, colse la rassicurante ombra del ricamo della tenda sul muro inondato di sole e rifletté sul lungo sogno, vissuto come un incubo.

Si alzò, andò nella camera del padre. Sua madre gli sorrise, stava porgendo la colazione al marito, che aveva già alzato – da sola – dal letto, e seduto sulla carrozzella.

Poi gli consegnò la cartolina, disse che era appena arrivata.

E lui lesse, rasserenato, a voce alta: questa volta gli sarebbero toccati un paio di mesi di attività in un archivio anagrafico. Poteva riporre ogni paura, il sogno non era stato premonitore.

La bella giornata e la buona notizia lo spronarono a uscire per la mattutina corsa a piedi: si avviò, di lí a poco, verso la parte alta della città.

In breve si sentì portare oltre il limite solito prefissato dal quotidiano allenamento, come se una forza nuova lo spingesse. Si ritrovò in fondo a una strada sterrata, mai prima percorsa.

Scoprì ben presto che la strada andava a chiudersi davanti a una casa dall’aria anonima:di colore grigiastro, con le persiane appena socchiuse.

Vide un cancello aprirsi: ne uscì un carro funebre con una bara bianca. Sul cofano della cassa era posata una rosa rossa, illanguidita.

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