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Editoriale

RILANCIO

GIUSEPPE ADAMOLI - 24/03/2017

pdÈ in pieno svolgimento il congresso del Pd a cui faranno seguito le primarie del 30 aprile per scegliere il segretario, il gruppo dirigente, il progetto politico dei prossimi anni. Il Pd merita le sue critiche ma è certamente l’unico partito che chiama alla discussione attiva sulle tesi politiche centinaia di migliaia di iscritti e poi qualche milione di elettori per il responso finale. Se confrontato con la partecipazione popolare di altri partiti, in primo luogo i Cinquestelle, questo dato è di per sé estremamente positivo.

Le polemiche sulle date, sulle modalità del dibattito e la ridicola pretesa che Renzi non si ricandidasse appaiono lontane tanto erano infondate e pretestuose. In gioco non sono i valori del più grande partito di centrosinistra ma le linee politiche, le coordinate culturali, il progetto di governo. L’identità è la somma e la sintesi di queste scelte. Altrimenti diventa un “a-priori ideologico” che rischia di immobilizzare e deprimere una forza di cambiamento.

Ambrogio Vaghi si rivolgeva direttamente a me in un suo articolo su questo giornale del 3 marzo scorso chiedendomi se lo Statuto del Pd debba essere cambiato. Certamente sì in alcune sue parti ma senza svuotarne i contenuti più innovativi. Sul delicatissimo tema del rapporto iscritti-elettori, ad esempio, mi pare che dopo una lunga fase sperimentale l’equilibrio sia ormai delineato: solo gli iscritti (tutti) votano per i segretari di circolo, provinciali e regionali. Gli elettori, oltre che gli stessi iscritti, votano per il leader nazionale, i candidati sindaci e i presidenti regionali.

Il Pd è mutato negli ultimi anni nel modo di essere, nella strategia, nel corpo sociale dei militanti e degli elettori rispetto ai partiti da cui derivava ma questo era uno degli obiettivi fissati alla sua fondazione nel 2007. Che cosa conservare e modificare dieci anni dopo? Da conservare la fedeltà ai principi costituzionali per tradurli in realtà con l’attuazione di un programma fortemente riformatore. Da aggiornare le risposte per l’emergenza “sicurezza-immigrazione” con ricette nettamente alternative a Trump e Le Pen, scopiazzate da Salvini-Meloni e forse da Grillo.

Non entro per ora nel merito delle differenze fra le mozioni di Emiliano, Orlando e Renzi. Accenno solo a due problemi di fondo che agitano il dibattito. Il primo è il valore della leadership. “Mai più l’uomo solo al comando”, si ripete come un mantra. E su questo convengo. Ma la leadership nei partiti moderni è una risorsa essenziale. Se in Germania i socialdemocratici vinceranno (molto difficile) sarà perché si è affermata nettamente la guida di Martin Schulz come presidente del partito e quindi come candidato cancelliere. In Francia, al contrario, la crisi della leadership sarà pagata carissimo dal partito socialista.

L’altro problema è la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Pd teorizzata da Veltroni nel 2007. Molti la mettono in discussione ma se non è una pretesa di autosufficienza essa è sempre valida ancora oggi. Significa infatti non rassegnarsi ad un ruolo di opposizione e battersi sempre per rappresentare la maggioranza del Paese. Da soli o con una coalizione dipenderà moltissimo dalla legge elettorale con cui si voterà.

Dopo la cocente sconfitta al referendum del 4 dicembre il Pd ha bisogno di questo bagno di popolo per legittimarsi nuovamente come grande forza di governo. Non penso sia contestabile che sulle sue spalle ricade la responsabilità di fare argine verso i nazionalismi e i sovranismi comunque denominati. E anche l’onere di contrastare movimenti dai programmi sconosciuti e dalla capacità di governo tanto improvvisata quanto allarmante.

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