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Opinioni

PARTECIPAZIONE, NON VOTIFICIO

FRANCESCO SPATOLA - 07/04/2017

pdvareseAl di là dei commenti sul “trionfatore” Renzi (2/3 delle preferenze), la lettura trasversale delle votazioni degli iscritti PD per la rielezione del Segretario al Congresso nei Circoli, conclusa il 2 aprile e preliminare alle “Primarie aperte” del 30 aprile, è che abbiano segnato una importante vittoria della partecipazione alla vita di partito, senza crolli né cali vistosi dato che hanno votato oltre 266.000 persone come nel 2013; un dato che nessun altro partito italiano potrebbe vantare. La provincia di Varese non ha fatto eccezione, confermando i circa 1800 votanti di quattro anni fa, e così la città capoluogo, con 192 votanti (su circa 300 iscritti: oltre 60%) nei 4 Circoli sul territorio del comune di Varese. Tutto bene, dunque?

Agli occhi dell’opinione pubblica, il dato della partecipazione al voto ha finito per oscurare l’altro e ben più cruciale aspetto, complementare alle votazioni al Congresso nei Circoli: quello del dibattito politico, su cui molto aveva insistito soprattutto Andrea Orlando, che avrebbe voluto far precedere le votazioni sul Segretario da una Conferenza Programmatica, per affrontare estesamente le questioni di merito, specie dopo la pesante sconfitta renziana al Referendum del 4 dicembre, aggravata dalla batosta della Corte Costituzionale, che ha affondato l’Italicum e quindi il sistema maggioritario, abolendo il ballottaggio e di fatto promuovendo il ritorno al sistema proporzionale di rappresentanza parlamentare. Un pericoloso salto all’indietro alla Prima Repubblica.

Avvertiva infatti Orlando che l’autocritica sulla duplice sconfitta da parte dell’ex Segretario Renzi, e dietro di lui del Partito Democratico nel suo insieme, era stata frettolosa e insufficiente, e non aveva voluto affrontare le vere questioni, specialmente quella sociale, che si nascondeva dietro il rifiuto referendario della riforma istituzionale e che riguardava le tante questioni di fondo sulla crisi italiana: dal mondo del lavoro alla scuola e all’università, dall’ambiente agli investimenti e alle opere pubbliche, dalla cultura alla ricerca, dalle periferie degradate al radicamento in Europa, dal fisco alle banche, dall’immigrazione al welfare e alla sicurezza, ecc.; sino alla forma-partito e al rapporto tra PD e governo, che ormai si trasferivano vicendevolmente le rispettive difficoltà anziché rafforzarsi reciprocamente.

Il NO forzoso di Renzi e della maggioranza della Direzione del PD alla Conferenza Programmatica erano stati motivati bensì dalla fretta per le imminenti elezioni amministrative di giugno e dall’esigenza di superare rapidamente l’attuale fase transitoria, senza Segreteria e col reggente-Presidente del partito. Ma soprattutto era stato detto che proprio il Congresso, a partire dai Circoli, avrebbe consentito un ampio dibattito sulle questioni di merito, cioè su come il Partito Democratico, a partire dalla base, debba ascoltare la società e i suoi bisogni e ridefinire il programma di governo, di fronte alle sempre più critiche sfide del contesto nazionale, europeo e mondiale. Questo perché il Congresso è un percorso di discussione politica che si accompagna passo passo alle votazioni degli iscritti sui candidati-Segretario: dai Circoli di base nella seconda metà di marzo sino all’Assemblea Nazionale del 9 maggio, in cui verrà proclamato il nuovo Segretario che avrà vinto le “Primarie aperte” del 30 aprile.

È stato così? Non sembra proprio. La fase dei Circoli appena conclusa era decisiva per il coinvolgimento della base ed il rilancio del partito. Ma, a causa dei tempi stretti imposti dal dimissionario Renzi e dalla Direzione PD, proprio nei Circoli il dibattito è stato sacrificato al meccanismo delle votazioni interne sui candidati-segretario. Per fare un esempio: gli iscritti vengono tutti invitati alla riunione di Circolo per le 10.30 del sabato o della domenica; c’è un quarto d’ora a disposizione per la presentazione di ciascuna delle 3 mozioni, ossia dei programmi politici generali dei 3 candidati-segretario; finite le presentazioni, alle 11.15 si aprono già le votazioni per chi ha più fretta mentre gli altri possono partecipare al dibattito; verso le 12.00, massimo 12.30 la “cruciale” fase del dibattito è già finita, e si va poi avanti fino a metà pomeriggio con le votazioni; poi lo scrutinio, fine dei giochi. Dopodiché tutti a vedere i risultati, come una partita di calcio. E per la successiva fase delle “Primarie aperte”, secondo tempo della “partita di calcio”, avanti con la cosiddetta “comunicazione”, ossia con un po’ di propaganda, soprattutto televisiva e nazionale.

Ma quand’anche il “dibattito” del Congresso sia stato ristretto nei tempi, in quell’oretta-due orette scarse tra presentazione e discussione è determinante il grado di partecipazione per valutarne l’efficacia. Posto che – a seconda delle zone – il 50-60% degli iscritti ha votato, quanti hanno partecipato al dibattito? Ecco il dato che manca all’opinione pubblica, e su cui nessuno si sofferma. Per quel che si è potuto vedere dalle nostre parti, la partecipazione ai dibattiti è rimasta scarsa, non superando il 20% dei votanti, quindi il 10-15% degli iscritti. Dibattiti magari intensi e di qualità, con ottimi interventi; ma, desolantemente, troppo pochi partecipanti.

Il Congresso che doveva servire a dibattere alla base è stato assai poco frequentato dalla base, riproducendo quegli aspetti di crisi di funzionalità di partito che dura ormai da troppo tempo, e che non è certo colpa del solo Renzi perché indubbiamente lo precede, sin da quando c’era la cosiddetta “ditta”, tutti ingessati nel perverso giro vizioso che rende anemica la vita dei Circoli: perché non si fanno riunioni? perché la gente non partecipa; e perché la gente non partecipa? perché non si fanno riunioni.

Così anche il partito che ha la democrazia nel nome, quindi nel DNA, vien meno nell’elemento decisivo: partecipazione e costruzione della linea politica dal basso, dal contatto con la gente ed i suoi bisogni e dalle elaborazioni di pensiero politico fatte collettivamente. Rimane solo la selezione della classe politico-istituzionale, ma non c’è da stupirsi se poi viene sbrigativamente accomunata nell’idea di “casta”: nonostante la diffusa sensibilità personale per le questioni sociali, che tuttora accomuna la stragrande maggioranza dei politici PD dalla base al vertice, anche per loro fare politica rimane un fatto di elite, seppure assai bene intenzionata.

Non è certo solo un problema del PD, gli altri partiti sono ben peggio e nemmeno tentano la partecipazione e selezione dal basso, salvo occasionali manifestazioni propagandistiche ad effetto; né risolve alcunché la selezione web del M5S, i cui numeri sono risibili ed il cui veicolo partecipativo è particolarmente distorsivo, con la sua impersonalità mediatica: click anziché persone. Ma nel PD dovrebbe essere affrontato con ben maggiore decisione, ed è precisamente il tema che più differenzia Andrea Orlando: un cambio di segreteria che si dedichi a tempo pieno alla ricostruzione dal basso di un partito che deve davvero rinascere, altrimenti è solo un comitato elettorale, ossia un “caro estinto”.

Su cosa dovrebbe puntare, chi volesse una rinascita politica autenticamente democratica, nel PD e negli altri partiti? Sul rompere il giro vizioso del non fare riunioni perché la gente non partecipa e viceversa. Se la gente non partecipa è perché non trova motivi di interesse e pensa sia inutile partecipare: perché chi sta in basso non conta niente; perché i problemi politici sono troppo difficili in una società così complessa, e la fine delle ideologie non aiuta a semplificare; perché si vanno logorando le “competenze sociali” spontanee con il crescente individualismo consumistico; perché è più facile urlare proteste generiche, promuovendo il populismo, che cooperare tra tanti diversi per costruire in modo cooperativo, ecc. ecc.

Eppure il vasto mondo del volontariato, su singole questioni di impegno settoriale, dimostra che gli italiani non sono insensibili all’impegno per gli altri, per i “molti”, di cui si nutre la politica vera. Si tratta allora di aprire i partiti – e, in particolare, dovrebbe avvantaggiarsene il PD dei Circoli – ad impegnare gli iscritti di base su singole concrete questioni su cui tutti abbiano qualcosa da dire: le strade del quartiere, i servizi elementari, le decisioni più importanti del proprio Comune. E di far sì che i “capi”, i referenti istituzionali ai diversi livelli, diano peso a quelle discussioni e proposte.

Allora, forse, anche le questioni extralocali potranno interessare e si potrà creare un circolo di comunicazione virtuosa dal basso all’alto e viceversa. E i rappresentanti di partito al Comune, alla Provincia, alla Regione, e magari anche i parlamentari si faranno vedere tra gli iscritti, a raccontare e farsi raccontare. E, nel caso del PD, i futuri Congressi saranno discussione politica partecipata e non votificio.

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